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8 - Le voci

Ci sono tre tipi di voci nel canto lirico: tenore, baritono e basso; timbri che, per le donne, prendono la denominazione di: soprano, mezzo soprano e contralto.
Assistendo ad un opera è facilissimo capire chi è l’uno o l’altro, il tenore è l’eroe; il baritono il suo antagonista malvagio; mentre il basso è il comprimario che assiste alla lotta tra i due, il più delle volte senza aver il potere di intervenire. Assolve la stessa funzione del gufo nel film di Walt Disney.
Tra i cantanti, quindi, ai baritoni spettano la parti più interessanti e significative, perché interpretano personaggi in chiaroscuro, come le loro voci. Ciò permette ai baritoni di potersi sbizzarrire nei recitativi.
In Arena ne visti e sentiti alcuni di gran calibro, basti citare Capucilli, Bruson, Zancanaro, ma quello che mi ha maggiormente colpito, è stato è Silvano Carroli. Probabilmente come voce non sarà all’altezza degli altri tre ma, sicuramente, come capacità interpretative tra lui e gli altri c’è un abisso. Carroli è un attore con la A maiuscola. Credo non sia facile per una persona impegnata a cantare, prestare attenzione anche alla recitazione, per carità, ma talvolta le performance dei cantanti sono imbarazzanti. L’espressività spesso è forzata, esasperata; ricorda quella degli interpreti dei film muti. Carroli, invece, ha una mimica misurata, mai sopra le righe; ma quello che fa di lui un vero fuoriclasse è la capacità di trasformarsi fisicamente per calarsi nel personaggio chiamato ad interpretare. Facendo un paragone con il cinema direi che è una sorta di Robert De Niro della lirica, L’ho visto nei panni di re barbaro (Attila), pistolero (Fanciulla del west), di mafioso (Cavalleria rusticana), di avventuriero (madama Butterfly), faticando, ogni volta, a riconoscerlo. Non è un caso che, per questa sua capacità, Carroli sia molto amato dai registi i quali, pur consci del fatto che l'aspetto interpretativo non sia centrale, specie in Arena, quando si trovano a cospetto di un attore non possono che essere soddisfatti.
Ci sono, invece, cantanti, per i quali l’immedesimazione avviene con un unico personaggio che finisce per diventare il loro cavallo di battaglia.
L’esempio più eclatante è Leo Nucci come Rigoletto. Effettivamente vederlo in scena fa una certa impressione. È vero che il suo è un cliché interpretativo ormai logoro e consunto, tante sono le repliche che ha sul gobbone ma, paradossalmente, è proprio quella patina di prevedibile e scontato la sua forza. Nucci è come quei vecchi tappeti persiani della nonna che, all’improvviso, osservati con un po’ più di attenzione e sotto un accidentale raggio di luce, rivela la sua preziosità. Rigoletto è Nucci. Penso abbia ammiratori che gli strofinano la schiena anche quando non indossa il costume di scena, perché è come se quella gobba non se la togliesse mai.
Un altro notevole processo di immedesimazione è quello tra il basso Evgenij Nesterenko e il suo alter ego Basilio personaggio del Barbiere di Siviglia. Nesterenko l’ho visto in Arena un paio di volte, in recital, impegnato sempre con la stessa aria: la calunnia è un venticello. Seppur in smoking e sul palco vuoto, quell’uomo aveva la capacità di ricreare attorno a se la scena. L’effetto, su di me, è stato talmente intenso che, nella mia memoria, si è creato una falso ricordo di Nesterenko, interprete di un immaginario meta-Barbiere areniano. Uno spettacolo inesistente che, solo grazie alla sua arte, ho elaborato nella mia immaginazione. Ricontrollo i miei appunti…, no dall’1985 a 1990 nessun Barbiere di Siviglia fu mai rappresentato, a ipnotizzarmi fu l’arte del grande basso russo.
Non ho un gran ricordo, invece, delle voci femminili.
A parte le sensuali cantanti di colore impiegate nel ruolo di Carmen, non a caso delle mezzo soprano, poco o nulla mi ha impressionato, men che meno le soprano. Anzi, devo essere onesto, non sopportavo il loro canto in falsetto prima dell’esperienza in Arena e non lo sopporto oggi, dopo aver provato in tutti i modi ad educarmi l’orecchio all’ascolto. Continuo a considerare il loro modo di cantare forzato e innaturale.
Sull’argomento ho una mia tesi, credo che ciò dipenda, dal vizio originario e genetico risalante al momento dell’introduzione delle voci femminile nell’opera. È noto, infatti, che le loro parti erano state concepite per voci maschili assai particolari, quelle dei castrati. Costoro, alle note più alte erano in grado di arrivarci naturalmente e con voce cristallina. Il compito ingrato delle donne è stato quello di sostituirsi a loro, costringendosi ad imitarli. Personalmente ritengo che qualcosa di più fastidioso all’orecchio umano del falsetto delle soprano sia difficile da immaginare. Sfido chiunque a dirmi che quel timbro innaturale renda giustizia alla voce femminile. Se debbo ricordare grandi voci nel campo della musica mi debbo rifare al jazz, al rock al pop, non certo alla lirica. Tra una Ella Fitzgerald ed una Callas ritengo ci sia un incolmabile abisso. Certo, non operano sullo stesso piano ma, forse, se la Divina avesse potuto cantare senza essere costretta a dover imitare un uomo privo di palle mi avrebbe, probabilmente, fatto un altro effetto. Lascio, pertanto le soprano, ai gay melomani perché continuino a farne le loro icone.

 
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