Prima di proseguire penso sia necessario presentare i miei colleghi
Durante la mia permanenza all’Ente Lirico, gli stagionali ruotavano con una certa frequenza, ma il nucleo degli stabili, non cambiò mai.
I cinque portastrumenti ufficiali erano tutte brave persone, con un buon carattere e scarsa predisposizione al litigio.
Questo non significa, però, che difettassero di carattere o personalità. Anzi, qualcuno era un personaggio proprio bizzarro.
Prendiamo Elio Falziroli, ad esempio.
Sulla cinquantina, di corporatura ed altezza medie, portava i capelli nerissimi, diritti e lucenti, pettinati all'indietro (mi confidò un giorno che li lavava con sapone di Marsiglia), a formare un bel contrasto con gli occhi celeste chiaro. Elio sapeva essere persona estremamente cortese e, se interpellato, rispondeva sempre con cortesia e sollecitudine.
Il problema nasceva quando nessuno lo interpellava.
Elio, infatti, aveva la curiosa abitudine di parlare da solo o, meglio, di parlare al mondo o, per essere ancor più precisi di litigare col mondo. Scoprii, ben presto, che il mio nuovo collega amava trascorrere l'intero turno lavorativo a lamentarsi. Il 60% delle volte dell’l'Ente lirico, il suo datore di lavoro; un buon 30% dei colleghi macchinisti; mentre il restante 10% prendeva dentro un po’ tutto, poteri forti compresi, dal governo al papa.
Mai, però, e dico mai, l’interlocutore diretto.
Le sue concioni, erano in dialetto stretto, abbondantemente infarcite di bestemmie, a volte davvero fantasiosissime; mentre il turpiloquio, curiosamente, era del tutto assente.
La cosa stupefacente avveniva, appunto, quando lo si interrompeva durante queste sue filippiche, magari per chiedergli qualcosa. La trasformazione era immediata: cambiava espressione, passava all’italiano e rispondeva con garbo e sollecitudine. Sembrava staccasse un interruttore.
Le sue Geremiadi, notai col tempo, non avevano un flusso costante, tendevano, infatti, a peggiorare, all’avvicinarsi della fine del mese, per arrestarsi del tutto (un paio di giorni, non di più) con l'arrivo del 27, giorno di paga. La quale, riscossa in contanti, Elio provvedeva ad investire, ritengo malamente, nella sala ippica contigua alla Brà.
Il portastrumenti con cui strinsi da subito amicizia, invece, fu Livio. Uomo enorme, falstaffiano nella mole ma dai lineamenti fanciulleschi. I suoi occhi, dietro gli occhiali, avevano la mitezza di quelli di un cerbiatto. L'appetito, invece, non aveva nulla di umano. Livio riusciva a mangiare un hamburger in due soli bocconi, che inghiottiva senza masticare; così la pizza: la tagliava in 4 e la risucchiava. L'unica cosa che ricordo avergli visto mangiare lentamente era la granita.
Livio aveva, poi, un'altra passione che si può chiamare in mille modi ma che io definirò nel più semplice: le donne nude. Aveva una bella collezione di film d’autore attinenti alla materia, in VHS. Avendo dei figli li conservava in uno scrigno di legno chiuso da un grosso lucchetto. Non dimenticherò mai la sua espressione costernata il giorno in cui mi raccontò di aver avuto i ladri in casa. Non gli avevano portato via nulla tranne il forziere a luci rosse scambiato dai malviventi per una cassaforte casalinga. Livio era anche un raffinato vojeur. Un giorno mi portò sui tetti del teatro Filarmonico, da lassù si poteva inquadrare un piccolo terrazzino, dal quale una signora, convinta di essere lontana da sguardi indiscreti, prendeva il sole in nudo integrale. In tre visite non ho mai avuto il piacere di vederla, ma era un piacere seguire Livio muoversi, nonostante la mole, con la destrezza di un ghepardo, tenendomi nascosto, al suo fianco, in attesa di una comparsa che non ci fu mai. Mi pareva di tornare bambino.
Ivo Bicego, del gruppo dei veterani era il capo o, per meglio dire, il portavoce. Era fisicamente massiccio e panciuto quanto Livio, ma più basso e più anziano. La caratteristica di Ivo era la forza fisica mostruosa, intuibile sotto il suo spetto da bruto: capelli scarmigliati e non più di sei denti in bocca Tranne, appunto, quando infilava la dentiera “da sera”).
La vita di Ivo era stata estremamente avventurosa. Aveva viaggiato, a lungo, in tutti paesi balcanici. I suoi aneddoti riguardanti crociere su piroscafi russi in navigazione nel mar Nero avevano un sapore esotico ineguagliabile. Nelle sue scorribande oltre cortina aveva trovato anche una donna, una statuaria cecoslovacca, che aveva sposato. Affascinato dai suoi racconti, un inverno, mi recai a Praga sulla scorta delle informazioni da lui fornitemi. La classica Praga pre caduta-muro con il suo fascino cotè e un po’ sinistro. La gita in piroscafo sul Mar Nero, invece, resta ancora un progetto in cantiere.
Renzo Marastoni, del gruppo, era il più scontroso, come tratto e come modi. Da subito, ci venne additato come individuo dall’avarizia proverbiale. Renzo era il più infaticabile tra noi, velocissimo, ci teneva a finire in fretta tutti i lavori per poi riposare. Piccolo e panciuto era uomo di poche parole. Però quando decideva di esprimersi parlava come lavorava: in fretta. Si trasformava in una specie di macchinetta che sfornava parole a velocità folle. Seguirlo richiedeva un certo sforzo, complice, va detto, una sintassi non proprio immacolata. La velocità serviva a compensare la predisposizione alla balbuzie così che, a sentirlo, suonava un po’ come un Pietro de Vico in salsa veneta.
Renzo, aveva un’altra peculiarità, quando era di buon umore (evento assai raro) amava lanciare, con frequenza metronomica, la seguente esclamazione: "A Romoléééé". Una esortazione il cui senso era del tutto incomprensibile, visto che di Romoli non ce n’era l’ombra in Arena e Renzo non era certo romano. In realtà, ma lo scoprii anni dopo, la sua era una citazione. A lanciare il grido era il suo attore preferito, Alvaro Vitali, interprete di Gigi er bullo, pellicola nella quale Romolo era il barista puntualmente angariato dal prepotente Alvaro.
Roberto Anterri, infine, era l’intellettuale del gruppo.
Baffuto, stempiato ed occhialuto; aveva un problema alle dita dei piedi che lo portava a zoppicare vistosamente. Era detto il professore perché aveva studiato all'università di Padova dando una decina di esami. Sempre compito, educato, con un eloquio forbito e indenne da mende dialettali, la sera amava darsi alla lettura e all’enigmistica, rafforzando nei colleghi l’opinione che si trattasse proprio di un intellettuale. Era anche un formidabile affabulatore e per questo era delegato alla narrazione di aneddoti particolarmente divertenti riguardanti il gruppo. Quello preferito riguardava proprio Renzo, la volta che invitò a cena i colleghi. Ma ne parlerò più avanti, perché merita una trattazione a sé