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18 - Dell'Arena il fin è la meraviglia

Assistere ad una rappresentazione areniana è un’esperienza da fare.
Anche se detestate la musica lirica, anche se trovate ridicoli quei grassoni che gemono e sospirano gorgheggiando, anche se per voi è arabo la buffa dizione dei cantanti, anche se non ci capite niente di quelle storie sconclusionate, in Arena vale la pena andarci, comunque.
Perché tutto ciò passa in subordine ed è anche il motivo principale per cui i melomani non la amano.
In Arena è unico lo scenario in cui è allestito lo spettacolo; è unico il palcoscenico, immenso; uniche le scenografie, titaniche; unici i movimenti di massa, hollywoodiani. La dimensione è quella del colossal che, in quanto tale, suscita: stupore, meraviglia, ammirazione. Facendo paragoni in termini cinematografici in Arena si esaltano registi alla Cecile De Mille più che alla Bergmann. L’aspetto intimista è, forzatamente, messo in secondo piano.
Conta solo la forza, la potenza e la magnificenza.
Secondo alcuni intellettuali tali aspetti attirano gli allocchi e, pertanto, si parla di opera in Arena come di spettacolo popolare. L’osservazione ha un suo fondamento, soprattutto se per spettacolo popolare si intende quello che stimola le sensazioni primarie ed elementari del pubblico. Osservazione ingenerosa, invece, se riferita agli esecutori. Il compito di approfondire partitura e dramma è stato portato avanti anche da grandissimi direttori, registi e cantanti, con risultati complessivi talvolta di ottimo livello. Ma sempre in seconda battuta, perché chi ha dimenticato il fine principale dello show areniano, ha fatto sempre flop; e l’insuccesso si fa catastrofale se a dimenticare la missione è un sovrintendente.
Spetterebbe al regista dare l’impostazione allo spettacolo, ma in Arena sono spesso le scelte dello scenografo ad indicare i percorsi obbligati per chi dirige le masse.
Per questo gli spettacoli migliori cui io abbia assistito sono stati creati da artisti che si occupavano sia dell’uno che dell’altro aspetto, come l’esempio di Zeffirelli insegna. Tra gli scenografi-registi, due si ergono titanici nella mia memoria: Piero Zuffi e Attilio Colonnello.
Colonello era un pazzo visionario.
Pazzo, perché aveva un caratteraccio, visionario perché le sue scenografie erano sempre strabilianti. Aveva capito l’Arena, forse troppo. Colonnello passava le giornate in anfiteatro a controllare ogni particolare, con cura maniacale. A qualsiasi ora del giorno lo si vedeva circolare con un bicchiere di plastica in mano che conteneva vodka e un ghiacciolo al limone capovolto, all’interno del bicchiere. Ogni tanto afferrava il bastoncino, estraeva il ghiacciolo e lo leccava. La vodka, anziché smussarne l’umore, purtroppo, lo eccitava. Le sue tirate all’interno degli arcovoli erano tristemente famose, urlava e sbraitava contro chiunque non si attenesse alle sue disposizioni, ed avendo un doppio ruolo le sue piazzate erano equamente divise tra tecnici ed artisti.
Ma, chiaramente, chi rompe paga, e il principio vale doppio per chi rompe le palle.
Colonnello aveva creato per il suo Andrea Chenier del 1986 una scenografia favolosa. L’inizio dell’atto si apriva su un tempietto in stile neoclassico costruito in solido legno, delizioso, ma di dimensioni tali da non poter essere spinto su rotelle sotto il volto principale, troppo alto. Ogni volta, sarebbe stato necessario staccare la cupola e levare le colonne. Il problema era che il tutto pesava l’iradiddio. I macchinisti, che non aspettavano altro, spiegarono che toglierlo tra il primo e il secondo atto sarebbe stato impresa impossibile.
Così il tempietto fece bella mostra di sè per tutta la durata dell’opera, persino con la ghigliottina a fianco. Un disastro. Fu in quell’occasione che i macchinisti spiegarono che ci sarebbe voluta una gru per fare un lavoro simile. Sembrava una battuta ma, evidentemente, qualcuno non aveva senso dell’umorismo perché qualche anno dopo si pensò bene di utilizzarne una e quell’orrore, da qualche anno, ogni estate fa bella mostra di sé come elemento scenografico aggiuntivo.
L’Andrea Chenier resta quella che considero la più brutta delle opere da me ascoltate a pari merito con la Gioconda, ma la regia di Colonnello, i movimenti delle comparse e le trovate sceniche le ricordo bene, così come il lavoro scrupoloso e meticoloso da lui svolto come regista. Il pomeriggio prima dell’ultima rappresentazione Colonnello dette una festa, sotto gli arcovoli, per festeggiare l’impresa e, probabilmente, per ingraziarsi nuovamente gli areniani. Troppo tardi, temo, credo che Colonnello in arena, come regista, non sia più tornato.

 
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