Un problema comune a tutti i cantieri di lavoro è quello degli infortuni. I lavoratori areniani, come tutti i manovali, devono sottostare alle disposizioni di legge in tema di sicurezza a partire dall’abbigliamento: scarpe in gomma, guanti e caschetto protettivo. Le ciabattine infradito, con le quali si presentavano certi colleghi, da un certo punto in avanti furono vietate.
È la fretta, la prima causa di infortuni sul lavoro. Un principio che i miei colleghi, non si stancavano mai di ripetere. Anzi, era talmente martellante questo loro invito a fare piano, con calma, che ne ricavai una canzone o meglio, visto l’ambiente, un’aria lirica. Spacciai la mia creazione musicale per un apocrifo verdiano, per l’esattezza un brano dal Rigoletto, tagliato nella versione definitiva. “La fretta è nemica del far ben, Rigoletto tu lo sai, Rigoletto tu lo sai”, faceva, e lo cantavo su una base musicale di mia creazione che, a onor del vero, aveva più echi Puccinian-orientaleggianti, che non verdiani ma che, comunque, divenne subito una hit della stagione. Trovai un valido alleato nell’interpretarlo in Adami, l’autista del tir sui cui caricavamo gli strumenti, il quale, andava a lezioni di canto con l’obiettivo di entrare nel coro. Mirava ad elevarsi nella scala sociale. Assieme deliziavamo le orecchie dei colleghi.
Ma il destino tesseva la sua tela e, come il Macbeth di Verdi, anche la mia composizione si rivelò maledetta e ad infortunarmi fui proprio io, l’autore. Il Tezza della situazione fu il collega anziano Livio e il muletto assassino fu sostituito da uno di quei carrello verticali con le due ruote in gomma.
Livio era il primo a predicare la calma sul lavoro a differenza di Renzo che, invece, preferiva finire in fretta per poi riposare in pace. Fu Renzo, nell’1989 ad introdurre il carrello a due ruote per trasportare i carichi. Da solo trasportava un contrabbasso (nella sua enorme cassa) quando di solito servivano tre persone e lo faceva in metà tempo. Secondi i puristi, io per primo, sballottare lo strumento in equilibrio precario sull’acciotolato areniano significava rischiare di rovinarlo ma, visto che nessuno degli orchestrali protestò mai, la pratica continuò; anche perché quell’anno, causa la chiusura del teatro Filarmonico per lavori, il carrello serviva davvero. Le prove, infatti, si tenevano al palazzo della Gran Guardia, attrezzato con un piccolo ascensore, che ci obbligava ad un superlavoro.
Un pomeriggio, scaricando il camion, accadde il fattaccio. Alle mie spalle avevo Livio con il carrettino. L’attrezzo, è dotato, alla base, di un piano di carico da cui partono due lunghe leve verticali poste in parallelo terminanti con due maniglie. A tenere fisse le leve due sbarre orizzontali. Una volta sistemato il carico, bisogna inclinare il carrello all’indietro per trasportare il carico senza eccessiva fatica. Livio lo teneva appoggiato al ventre ma con il piano d’appoggio sollevato, formando un angolo di circa 45° con il piano stradale. Tutte cose che posso spiegare adesso ma di cui allora ero all’oscuro.
Raccolsi ansimando dal pianale del camion il carico più pesante che ci fosse, la cassa degli spartiti. Gemendo per la fatica mi voltai e, accucciandomi leggermente, non l’appoggiai ma la lasciai proprio andare. PUM. Come accade nei cartoni animati quando il personaggio calpesta il rastrello abbandonato in giardino, il contraccolpo fece scattare il corpo del carrello verso di me e mi beccai la sbarra di ferro orizzontale sulle sopracciglia, un centimetro sopra il naso. Si udì una risata quale, credo, nemmeno Totò a teatro avesse mai sperimentato.
Io, raddrizzandomi, cercai di darmi un tono provando con la classica frase: “Non è successo niente”, ma l’unica cosa che riuscii a fare fu salire, barcollando, i gradini della Gran Guardia per poi stramazzare al suolo, lontano da occhi indiscreti, sotto il porticato. In quel momento capii cosa prova un pugile messo KO, volevo fare mille cose ma il corpo non rispondeva.
Dal riso, intanto, i miei colleghi erano passati alla preoccupazione.
Udii una misteriosa voce femminile: “State lontani, fatelo respirare”. Un’altra voce: “Qualcuno chiami un’ambulanza”.
Poi, il suono più gradito, Livio piagnucolante: “Non c’entro, non è colpa mia. Oddio, mio…”.
Intanto arrivò l’ambulanza che mi condusse all’ospedale dove fui medicato, radiografato e, una volta accertato che non avessi perso i sensi, fui dimesso. Per tre giorni rimasi assente dal lavoro poi mi ripresentai con un livido viola alla fronte pronto ad abbracciare un provatissimo Livio che, magnanimamente, perdonai. Ma ogni tanto ci ripenso, cosa ne sarebbe del mio nasino alla francese se mi fossi chinato un altro po’? O dei miei bellissimi denti?
La fretta è nemica del far ben, Rigoletto tu lo sai, Rigoletto tu lo sai….