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7 - Quelli di via Tonale

Quelli del campetto
Stasera, è la sera della reunion. Una parte di noi si troverà al Campetto per una breve cerimonia laica.
Gli altri sono attesi al luogo convenuto per il ritrovo.
Mi concedo un ultimo ricordo.

Non so se il Santo padre ne sia informato, se in Vaticano la notizia sia stata divulgata, ma quel pezzo di via Tonale in cui ho abitato dovrebbe entrare nel Guiness dei primati ecclesiastici. La via è suddivisa in 3 isolati. Quello lungo che confina con via Isonzo e gli altri due, prospicenti al primo, divisi da via Medici. Ebbene: ognuno dei 3 block è sottoposto ad una giurisdizione parrocchiale diversa. Il “lungo” è sotto Sant’Eufemia; quello in cui abitavo io, a San Francesco; a quello alla fine della via a San Giorgio. La parrocchia più importante del quartiere? San Pietro, in piazza Vittorio Veneto, naturalmente.
Quel pezzo di via Tonale era una sorta di Belfast, nella quale si consumava una lotta senza quartiere tra i parroci delle tre chiese. Quando andavano a benedire le case, dovevano stare attenti a non sgarrare, potevano finire sul versante sbagliato, scatenando l’inferno. Ma i per i fedeli in gioco, come sempre, c’era la reputazione. L’appartenenza ad una parrocchia o rispetto a un’altra, faceva status. Sant’Eufemia essendo in centro, al di là del ponte, era la più prestigiosa. San Giorgio, con il suo cupolone che si specchia nell’Adige, la più bella. Infine San Francesco, la più recente delle 3, era la più scalcagnata. Come “sede”, aveva puntato sul garage sotterraneo di una villetta liberty, in via Todeschini. Per entrarci era necessario scendere dalla rampa. Era una specie di catacomba, vietata a chi soffriva di claustrofobia. L’unico che l’adorava era Tesini, appassionato di macchine. Gli piacevano le chiazze d’olio sul pavimento, ignorando il fatto che si trattasse di olio santo, sfuggito di mano a Don Gianfranco, durante un’estrema unzione. Oggi la parrocchia occupa una fetta dell’ex Arsenale, ma quando passo davanti alla villetta, osservo sempre la rampa. Mi aspetto di trovare un cartello: “Offresi posto auto, in garage sconsacrato”.
Racconto tutto questo per dire che in Italia, negli anni ’70, il luogo deputato al gioco per i ragazzini, era il campetto dell’oratorio. Visto che, paradossalmente, nessuna delle 3 parrocchie aveva un campetto degno di questo nome, tutti noi ragazzi della via ci ritrovammo, spontaneamente, a giocare nel terreno “abbandonato” tra via Abbe e via Tonale.
Cominciando l’epico ciclo sin qui narrato.

Sul fatto che il nostro fosse un campo laico, mi soffermo solo ora, perché allora la questione non sarebbe stata presa in considerazione, anche perché lo spirito religioso era presente in noi in misura estremamente blanda.
Faceva eccezione il pio figlio dell’ingegner Cappucci, che abitava nel mio palazzo, al 12 di via Tonale. Era un praticante, sempre in prima fila alla funzione del mattino. Veniva chiamato il pinguino, per la sua andatura dondolante. Era affetto, probabilmente, da una qualche malattia che ne aveva limitato lo sviluppo fisico ma non intellettuale. Secondo mia madre era mongoloide ma, è bene dirlo, con quel espressione infelice, negli anni ’70, si designava una summa di malattie, disturbi o semplici inclinazioni, praticamente illimitata
Piccolino, con una voce chioccia di gola, indossava occhiali con lenti spessissime. Età: indefinibile. Nel palazzo e nella via tutti lo consideravamo, con affetto, essendo una persona mite e affabile. Per questo rimanemmo tutti un po’ sorpresi, alcuni anni dopo, quando venimmo a sapere che, in ascensore, aveva assalito la procace Claudia Rangogni, palpeggiandola. Anche lui, evidentemente, sentiva il richiamo dei sensi e la sirena del vizio. L’incidente, tuttavia, non lo danneggiò più di tanto. Per noi continuò a essere il Pinguino, ma più con riferimento al supercriminale nemico di Batman che al placido pennuto antartico.
Ma sto divagando.
Si diceva che le lenti degli occhiali di Cappucci fossero ricavate dal vetro antiproiettile che proteggeva la Sacra Sindone a Torino. Il vetro, dotato di prodigiosi poteri, gli aveva donato una sorta di seconda vista. Egli leggeva neLl’animo umano (probabilmente, quel giorno con la Rangogni le lenti erano un po’ appannate…).
Spesso, dalla finestra di casa sua, affacciata sul campetto, guardava le nostre partite di calcio; dimostrando di avere un certo fiuto nel giudicare il talento dei calciatori, proprio grazie agli occhiali miracolosi.
“Luca” mi disse una volta “sei peggio di Calloni, nemmeno con il portiere legato alla traversa riesci a segnare!”
Calloni a l’epoca era l’attaccante del Verona. Proveniente dal Milan, era considerato uno di più grandi bidoni della storia del calcio. Solo pochi anni dopo la fine della sua breve carriera, consegnava già gelati Algida col furgone. Io, allora, ero agli albori della mia carriera di “giocatore del campetto” ma dovetti ammettere, a denti stretti, che il pinguino aveva ragione. Ogni volta che tiravo in porta: o la buttavo sul portiere, o fuori. Visto che ambivo ad essere un puntero: o la buttavo dentro o, continuando così, mi si sarebbero aperte “le porte della porta”.
Cosa sbagliavo, dunque?
Dopo attenta disamina, rivedendo i miei comportamenti in campo, mi resi presto conto da dove nasceva il problema. Era la fase dei Passaggi & Tiri a fregarmi. Aduso a tirare sempre centrale o fuori, per non finire a giocare in porta, inconsciamente ripetevo lo stesso movimento anche in partita. Non segnavo mai perché mi ero abituato a non segnare mai!!!!!!
Capito il problema, fu sorprendentemente facile risolverlo.
Cominciai a posizionarmi attaccato al palo (letteralmente, mi tenevo con il braccio) della porta avversaria. Appena arrivava un pallone vagante, o sporco, tock, con un tocchetto molle e infingardo la buttavo in rete, mirando tra palo e portiere. La cosa più facile del mondo, massimo 50 centimetri di gittata. La cosa, in un primo momento, destò una certa sorpresa; in seguito, questo mio modo di segnare (cinico e insulso), mi causò diverse critiche. Ma chi segna ha sempre ragione, si sa! L’arrivo in scena di Paolo Rossi, in seguito, mi permise di prenderlo come pietra di paragone e mi vendetti pure io come attaccante “sornione e con gran senso della posizione”.
Divenni un avvoltoio, grazie a un Pinguino!

In quella fucina di talenti che era il mio palazzo, brillava anche la stella di Zeno Bortolaso.
Zeno aveva adibito il garage di famiglia, ad officina. Passava i pomeriggi ad aggiustare i motorini di amici e conoscenti, dietro compenso. Prendeva la cosa molto sul serio. Si infilava una tuta azzurra, unta e bisunta, da meccanico (se non erro con cernierione di sghimbescio, che partiva dal pacco per arrivare alla spalla), e passava lì i suoi pomeriggi. Secondo me non apprezzava particolarmente aggiustare i motori, quello che gli piaceva di più era “interpretare” il ruolo di meccanico. In questo era impressionante. Accoglieva i potenziali clienti strofinandosi le mani in uno straccetto intriso di catrame, ascoltando le loro richieste. Quando gli veniva riferito l’ipotetico guasto, riportato dal motorino, assumeva la tipica espressione, tra il sardonico e lo strafottente, del meccanico provetto davanti a l’incompetente.
Non so su quali basi e per quali ragioni, ma era anche selettivo con questi potenziali clienti. La sua tuta aveva delle tasche verticali profonde, a l’altezza della vita, quando usciva dal garage con le mani in tasca, per accoglierli, significava che non avrebbe accettato il lavoro. Questo per dire il grado di minuziosa introspezione caratteriale riuscisse a raggiungere interpretando il personaggio.
Quando doveva fare il prezzo poi, la formazione da actor studio emergeva in tutta la sua possanza. Indietreggiava un piede e poi si inclinava leggermente a l’indietro, quasi stesse cadendo; quindi rifletteva un attimo, scuotendo la testa, infine, comunicava la cifra (esorbitante!), proposta come se si trattasse di una cortese ed esclusiva concessione ad un buon amico.
Il meccanico per eccellenza!
Mi sono sempre chiesto perché Zeno non abbia proseguito su quella strada. Un mistero! Era il suo lavoro. Se avesse continuato, sono certo che oggi sarebbe il Richard Rawlings italiano.
Le porte del suo garage si spalancavano sul campetto. Ogni tanto lo chiamavamo a giocare, ovviamente in porta. Lui si schermiva, ma era un portiere temibilissimo, che ogni squadra voleva avere dalla propria parte. Il suo stile lo potrei definire intimidatorio. Tra i pali era difficilmente superabile; grazie alla tuta incatramata, infatti, teneva lontani i giocatori avvezzi a stanziare in area. Zeno eccelleva anche nelle uscite perché gli si faceva il vuoto attorno. Per dire, un giocatore infido e guizzante come Mario Marzolo, quando lo affrontava da avversario, spariva dal gioco. Doveva preservare le sue Lacoste, visto che nemmeno i migliori detersivi teutonici, potevano eliminare quelle macchie di grasso.
Ma non era solo questo. Forte del suo soprannome “mane onte”, imbrattava pure il pallone, ogni qual volta lo prendeva in mano. Quindi quando giocava lui, gli stop di petto erano banditi (non che se ne vedessero molti…), così i colpi di testa, per non parlare poi dell’imbarazzo a calciare, in chi sfoggiava un paio di scarpe da tennis nuove.
Fu così, Zeno Bortolaso, detto “mane onte” si guadagnò anche il rispetto di “quelli del campetto”.
 
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