A livello di esperienza lavorativa, una cosa mi saltò all’occhio fin dal primo giorno di lavoro l’assenza assoluta di qualsiasi forma di nonnismo da parte degli stabili nei confronti di noi stagionali. I vecchi trattavano noi novellini da pari a pari, senza arroganza, prosopopea o prevaricazione. Questo, mi accorsi poi, era la norma per tutti i reparti, non solo il nostro. La cosa era ancora più stupefacente, per i trascorsi di molti degli operai areniani. Sino ad una decina di anni prima del mio arrivo, infatti, l’Ente Lirico non era un teatro stabile, ma funzionava solo nel periodo estivo. Solo dopo aspre battaglie sindacali, si arrivò a dare lavoro a buona parte delle maestranze per tutto l’anno, creando la stagione lirica invernale al Filarmonico e, purtroppo, inaugurando la stagione dei bilanci in rosso per l’ente. Molti dei manovali assunti, quindi, avevano lavorato a lungo come stagionali arrangiandosi durante l’altra parte dell’anno. Alcuni tra loro avevano trascorsi, per così dire, burrascosi, come tatuaggi o soprannomi stavano ad indicare. Da Satana al Legionario (titolare di regolare pensione dallo stato francese per il suo impegno in Indocina) c’era poco da scherzare. Ma nonostante, ciò, ripeto, understatement ed aplomb britannici regolavano i rapporti tra le persone. Nulla a che vedere con la sordida e selvaggia meschinità che avrei trovato, negli anni a venire, nel mondo impiegatizio, frequentato da gente, cosiddetta, per bene. Va anche detto, a onor del vero, che gente che ha sparato a vietcong o accoltellato giostrai rivali, non ha ragione di sfogare le proprie pulsioni bestiali sui colleghi di lavoro, come, purtroppo, necessita di fare alla gente per bene.
È probabile, invece, che il fatto di essere, noi stagionali, per la maggior parte studenti universitari, faceva guadagnare rispetto agli occhi di quella gente. La considerazione di chi ha abbandonato gli studi nei confronti di chi li ha proseguito è un dato di fatto.
La definizione di uomini d’oro, per noi porta strumenti, era stata coniata dai colleghi macchinisti e derivava da un privilegio di cui noi godevamo e veniva giudicato da tutti scandaloso. Terminato il periodo delle prove al Filarmonico, dopo il debutto dell’ultima rappresentazione, terminato il nostro compito di carico e scarico strumenti verso il teatro Filarmonico, si stabilì che lavorassimo solo la sera. Quindi, nel mese di agosto, noi si godeva dell’intera giornata libera, e l’attività iniziava alle 8 di sera. Cosa che ai colleghi stagionali macchinisti, sempre costretti al turno completo, non andava giù. Tanto da farli protestare con l’ufficio personale chiedendo, visto che non avevamo nulla da fare, d’andare in sostegno a loro. Understatement, appunto…
I macchinisti, sono i colleghi manovali adibiti all’allestimento delle scene. In realtà, i macchinisti veri e propri sono abili artigiani con nozioni di falegnameria adibiti al montaggio vero e proprio delle scenografie, mentre ai manovali macchinisti (gli stagionali) spetta il mero compito del trasporto dei pezzi. Il macchinista vero da quello finto lo si riconosce da cinturone Come i cow boy, infatti, i primi lo portano alla cintola, al posto dell colt il martello e dei proiettili i chiodi. I macchinisti sono divisi in due squadre di lavoro: notturna e diurna. I primi, all’epoca, sotto il comando del leggendario Tezza, i secondi sotto quello di Gianni Pasetto. Tezza, era un ometto dalla struttura fisica curiosa, infatti, la larghezza delle spalle era pari all’altezza. Non dava confidenza a nessuno ed era perennemente infuriato. Dai suoi uomini era temutissimo perché li sottoponeva, in quelle sei ore di lavoro, che andavano dalla fine dell’opera all’alba, tour de force spaventosi. In quel ristretto lasso di tempo dovevano smontare un allestimento e cominciare a montarne un altro, ma lui si faceva un punto d’onore a riconsegnare, il giorno seguente, l’allestimento finito. Guidava il muletto sul palco come un tarantolato fregandosene di chi ci fosse intorno. Tra i suoi manovali (strapagati) il ritmo di infortuni sul lavoro era altissimo. Credo abbia chiuso spesso l’anno con percentuali di sostituzioni sopra il 50%. Ma chi riusciva a chiudere la stagione illeso si guadagnava il suo rispetto.
Pasetto, invece, aveva un altro stile.
Come si deve comportare un capo l’ho imparato da lui.
Come ho avuto modo di spiegare, il mio quinto anno in Arena, qualcuno ebbe l’idea di riesumare la prassi del lavoro in appoggio ai macchinisti per il mese di agosto. Obbligo, però, esteso a noi soli stagionali e non ai nostri sei colleghi assunti a tempo indeterminato. Si trattava di una palese ingiustizia e, a mo’ di ritorsione, io e i miei compagni di lavoro prendemmo l’abitudine di imboscarci, per giocare a carte, salvo ricomparire alla timbratura del cartellino. Tralascio ogni commento sulla natura della protesta.
Una mattina, una specie di sesto senso mi spinse a tornare nei ranghi, abbandonando una briscola piuttosto combattuta, prima del tempo. Tornando verso il palcoscenico scorsi, senza essere visto, un Pasetto infuriato che ispezionava gli arcovoli alla nostra ricerca. In fretta mi infilai nelle toilette, da cui uscii da lì a breve tenendomi la pancia.
“Dove sono gli altri?” mi interrogò torvo Pasetto quando mi incrociò.
“Non lo so” risposi “Io ero in bagno, non sto bene. Perché?”. Lui non ripose e io tornai al lavoro immergendomi in un atmosfera di cupo rimprovero da parte dei colleghi dediti al lavoro, che si poteva tagliare con l’affettatrice.
Tempi cupi si annunciavano per i miei colleghi…
Infatti, quando si materializzarono davanti all’orologio timbra tempo, trovarono i macchinisti schierati, capitanati da Pasetto. Volarono parole grosse. Grossissime. I miei compagni col capo chino erano ammutoliti, non potendo giustificarsi in alcun modo. Erano pagati per lavorare, non per giocare a carte.
In quel mentre arrivò Costa, l’ispettore delegato al controllo del personale. Si fece silenzio assoluto, la frittata adesso era fatta.
“Che succede?” domandò.
“Niente” rispose Pasetto.
“Come niente? Si sentiva fino al liston”.
“Niente ho detto!” ruggì l’altro. Costa guardò torvo il gruppetto e poi girò i tacchi.
“Ci siamo capiti?” chiese loro Pasetto, poi se ne andò anche lui.
Ecco, quel giorno capii come un capo, per essere considerato tale, deve comportarsi. Nessuna pietà per chi trasgredisce le regole del gruppo, ma i regolamenti di conti vanno sempre gestiti all’interno del gruppo perché nessuna ingerenza esterna può essere tollerata.
Superfluo dire che la maggior parte dei capi che ho avuto successivamente, hanno sempre fatto l’esatto opposto.
Da quel giorno, ovviamente, non sgarrammo più.