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12 - L'Armando il Calzolaio

Il mio amico Pippo venne assunto come manovale di supporto alla calzoleria dell’Arena, l’anno successivo quello del mio debutto. In cosa consisteva il suo lavoro, mi domandavo? Cosa ci facevano ben due manovali di supporto a quel reparto? Premesso che ancor oggi non l’ho capito, allora, la curiosità mi portò ad essere un assiduo frequentatore del suo posto di lavoro. Ciò mi permise di conoscere personalmente una delle più leggendarie figure che mai abbiano calcato il retropalco areniano: l’Armando.
Armando era un calzolaio che aveva fatto le scuole professionali. Ciò significa che non era un semplice riparatore, lui le scarpe era in grado di farle. La sua forza era proprio questa: era fiero di essere un calzolaio ed amava il suo mestiere. Allora era vicino alla sessantina. Piccolo e tondo aveva la testa grosso. Il viso era occupato manu militari da un naso grande e gonfio, sotto il quale si apriva una bocca larga, dalle labbra pressoché inesistenti. I radi capelli neri erano imbrillantinati e pettinati all'indietro.
Il suo reparto, di fatto, lavorava duro solo 8 giorni a stagione: la sera della prova generale e quella della prima. Per quattro spettacoli il conto è presto fatto. I due manovali, in pratica, servivano a scaricare gli scatoloni delle scarpe provenienti dai magazzini dei noleggiatori. Le scarpe sono le ultime ad arrivare e, solitamente, i numeri non sono sempre, per così dire, calzanti. Chi primo si presenta in calzoleria per prendere in consegna il suo paio, quindi, ha possibilità di scelta, mentre gli ultimi sono costretti a mettere ciò che trovano. In quelle due sere il caos è indescrivibile, una trentina di persone, che si accalcano in una stanzetta, lamentandosi e strepitando, sono la norma e spettava all'Armando accontentarle in tempi rapidi, modi spicci e trucchi del mestiere. Ad esempio, sapevate che l'alcool è una panacea per chi ha le scarpe strette? Basta inondarne la superficie (piede incluso) e piano piano la pelle si allarga. Mi piaceva dare una mano con l'alcool, soprattutto quando mi facevo sfuggire qualche spruzzo sotto le gonne delle ragazze.
Colla e martello, poi, erano indispensabili per rattoppare e ricomporre calzature che avevano visto giorni migliori. In quei momenti concentrazione e rapidità di esecuzione del calzolaio erano strabilianti.
Ma quelli che davano più da fare all'Armando erano i tenori. Gli stivali di Elton John in Tommy erano espadrilles al cospetto di certi lavoretti che era costretto a fare per loro. Gli stivali di Martinucci in Aida tra zeppa e rialzo raggiungevano comodamente i 40 centimetri. Carreras, invece, aveva i suoi personali, che non arrivavano a tanto ma ci si avvicinavano. Ma la cosa grottesca era gente come Bonissoli, sul metro e ottanta, che a propria volta pretendeva le zeppe trasformandosi in una sorta di Boris Karloff in salsa Frankenstein.
Armando non era personaggio che dava subito confidenza. Solo dopo una decina di miei passaggi per la piccola calzoleria, si degnò di salutarmi, e solo dopo aver avuto assicurazioni dal Pippo che anch'io fossi un studente universitario. Perché Armando era uno snob. L'infastidiva l'essere circondato da gente ignorante, un fastidio che non faceva niente per nascondere. Sembrava avesse un caratteraccio ma in realtà si limitava a dispensare, con voce alta e tonante, massime che cadevano sulle schiene dei malcapitati interlocutori come colpi di scudiscio.
“La rana nel suo stagno ignora l'oceano”, era la sibillina considerazione dedicata a chi osasse contraddirlo. Un modo elegante per dare del mona a chicchessia.
“Scuoti le catene che ti avvolgono!, invece, serviva a spronare chi, ai suoi occhi, ostentasse apatia (non pochi a dire la verità).
Un lavoro svolto male era detto del Sior Bortolo, mentre i frutti del lavoro stesso erano, invariabilmente, “buele de porco”.
Poi recitava Dante, o qualcosa che lo ricordava, in continuazione. La sua frase preferite era: “Carondimonio dagli occhi di bragia”. che sfoggiava non appena il piccolo locale della calzoleria si riempiva un po’ troppo. Allora fissava negli occhi il primo malcapitato che gli capitava sotto tiro e, con tono gasmaniano, la pronunciava. Funzionava, non ce n’era uno che non si cavasse di torno come avesse il diavolo alle calcagna.
Curiosamente, poi, il citare Dante e il suo inferno gli provocava sempre una certa secchezza alle fauci. In quei momenti, allora, lanciava il suo grido di battaglia: “Ho sete, sono arso”. Era l’istante in cui ogni attività doveva cessare per partire alla volta del bar dove l’attendeva la degustazione di un flut di spumante per dare ristoro alla gola secca. Ma la sua dedizione al prosecco e alle sue modalità d’assunzione, merita una descrizione a sé.

 
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