Oltre all’opera in Arena l’Ente, durante la stagione estiva, ama organizzare attività collaterali, spin-off che vedono protagonisti, il più delle volte, elementi dell’orchestra in qualità di concertisti. Ovviamente, dove c’è uno strumento c’è un porta-strumento.
La mia prima esperienza come supporto ai concerti avvenne nella chiesa di Santa Maria in organo. L’organo cui si fa riferimento, naturalmente, è quello che si suona.
Una mattina la settimana arrivava un organista per esibirsi davanti ad un pubblico che raramente superava le cinque unità, nonostante la gratuità dello spettacolo. Il programma prevedeva Bach, poi Bach poi ancora Bach. Un’esperienza che mi ha portato ad odiare prima gli organi poi Bach. Il compositore evocava in me il ricordo terribile degli anni di liceo scientifico e delle aride lezioni di matematica. Stordito dalla sua musica, ero preda di visioni. Mi pareva che le note, simili a fiocchi di neve, discendessero a spirale, dalle canne dell’organo. Fiocchi racchiusi in parentesi tonde, quadre e graffe; delle espressioni matematiche rese in forma musicale. Che freddezza! Quella non era musica ma algebra. La matematica, ai miei occhi è sempre apparsa algido meccanicismo, e altrettanto gelida e senza sentimento mi sembrava quella musica. Lo dissi, una volta, ad Elio: “Sembra musica scritta con il righello”. Lui annuì ridendo ma, a ben vedere, avrei potuto dirgli qualunque cosa che lui avrebbe annuito ridendo. Un esperto potrebbe obiettarmi che tutta la musica è un processo matematico. Può darsi però le scale infinite con lievi variazioni di Vivaldi mi paiono più vitali e il canone di Pachelbel, (cui mi ero avvicinato negli Stati Uniti udendone provenire il suono dal banchetto di un hippy di Venice beach, recante la scritta Music for e new age), pur nel suo schematismo è dolce e solenne e, probabilmente, continuerebbe ad essere tale anche suonato da un organo. Ho sempre vissuto questa idiosincrasia verso Bach, con un certo senso di colpa. Un giorno arrivai a comprare una cassetta delle variazioni Godberg in un autogrill. L’amico che stava in macchina con me, dopo dieci minuti di ascolto, chiese se ero pazzo. Provai a chiedergli uno sforzo di comprensione dandogli dell’ignorante ma, alla fine, dovetti dargli ragione, ero ignorante anch’io. Odio Bach!
Ma il clou dell’attività concertistica era quello legato ai concerti della banda dell’Arena, diretta dal maestro Solliman. In realtà la parola banda non andava usata in sua presenza preferendo egli, e così i suoi uomini, la più nobile dizione di Orchestra di retropalco. In realtà la sedicente orchestra veniva utilizzata in una sola opera, l’Aida, durante la quale, proprio dal retropalco, accompagnava il coro “Immenso Phta”. L’invocazione al dio cantata della sacerdotessa con il coro, che anticipa le note del trionfo. Membri della banda, tra l’altro, sono anche i trombettieri egizi che intonano la famosa marcia.
Durante i concerti, quindi, l’ensamble proponeva il classico repertorio bandistico, impreziosito proprio dalla marcia trionfale, cosa che avrebbe dovuto attirare il pubblico delle grandi occasioni. Invece, purtroppo così non era. Ricordo un concerto a Sabbioneta, ad esempio, in cui gli spettatori non erano più di una ventina. Ciò avveniva proprio perché i manifesti con la scritta, a caratteri cubitali, Orchestra di retropalco dell’Arena di Verona, anziché attirare gli appassionati li allontanava. Se nello stesso momento, infatti, c’era un’opera in corso a Verona, si domandavano i più, cosa ci facevano quelli in paese alla stessa ora? Molti, insomma, subodoravano un’operazione truffaldina, un po’ come i sandali del Dr Schulz che avevo visto un giorno in vendita al mercato di Livorno. Purtroppo i presentatori di turno non ritenevano utile spendere due parole per spiegare chi erano quei signori e che le trombe egizie che scintillavano alla luce dei riflettori erano quelle areniane DOC.
Diciamo, che il senso del marketing non era una caratteristica del maestro Solimann il quale, invece, preferiva profondere le proprie risorse nell’organizzare i rinfreschi post concerto. Purtroppo a questi buffet noi portastrumenti si arrivava sempre fuori tempo massimo, perché, il tempo di risistemare le cose sul camion, ci ritrovavamo pietanze e bevande già spazzolate. Dopo una nostra lamentela, ricordo, il maestro in persona provvide a conservarci del cibo, alla fine del concerto successivo. Lo ricordo benissimo, si trattava di gorgonzola e cracker. Tutto soddisfatto mostrò il cibo a me e a un collega. Per esprimergli la mia gratitudine spalmai del formaggio su un crostino mettendolo in bocca, mentre lui mi parlava. Non so come riuscii a masticarlo e inghiottirlo senza modificare espressione. Fu il più grande sfoggio di educazione di cui sia stato, sinora, capace. Il presunto cracker, infatti, era un biscottino al cocco.
Non ho più assaggiato qualcosa di tanto orribile.
E ho ancora il dubbio che il maestro l’avesse fatto apposta, prova ne sia, infatti, che da lì in avanti nessuno di noi si lamentò più per l’assenza di cibo a fine spettacolo.