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3 - Democrazia al campetto

Quelli del campetto

Prosegue a gonfie vele l’iniziativa del Toma, sono state superate le 100 adesioni!
Leggere i nomi fa uno strano effetto e riporta alla memoria molti ricordi.
La maggior parte degli aderenti sono ragazzi che vivevano nella zona a ponente del Borgo. All’epoca via IV Novembre era una sorta di barriera fisica, un confine reale. Chi viveva a Levante non sapeva nemmeno l’esistenza chi stava a Ponente. Io, per dire, abitavo in via Tonale già da tre anni quando scoprii che la strada proseguiva, con lo stesso nome, anche dall’altra parte di via IV Novembre. Una cosa assurda, inconcepibile, anche per me che avevo abitato a Gorizia, città divisa in due dalla linea di confine. Ma non solo, scoprii che c’erano anche due vie Isonzo e due via Cesare Abba. E nelle due Vie Cesare Abba c’erano due campetti: il nostro e un altro, in un inquietante gioco di specchi che disorienta. Ne parlavo oggi col Gaff (Andrea Gaffè). “Non è che nel gruppo -Quelli del campetto- c’è gente che andava a giocare nel campetto sbagliato” mi ha chiesto “e adesso dice che giocava da noi?” “Guarda Gaff” ho risposto “non mi stupirei più di niente!”
A dire il vero di levantini che venivano a giocare da noi ce n’erano. Cresto e il Tex, ad esempio. Abitavano sopra la farmacia Coghi, Molo di Levante. Essi, tuttavia, con sprezzo del pericolo e predisposizione all’esplorazione, accettavano il rischio di traversare la strada. Certo, non va dimenticato che il padre del Tex partecipava a corse automobilistiche e fin dalla più tenera età, quindi, egli era avvezzo a traversare la pista di Vallelunga o Misano durante le competizioni.
Poi c’era gente come il Rino che veniva, addirittura, da viale Della Repubblica. Marco Rinaldi, detto prima Rina e poi Rino (perché Rina è da femmina), però veniva in bicicletta, facendo il periplo dell’Arsenale, per non attraversare quella via maledetta.
Eccezioni, perché il campetto era di noi che ci vivevamo attorno. Adesso che ci faccio caso c’erano tante coppie di fratelli: i Marchiori, i Bortolaso, I Saletti, i Gaffè, i Tonni, i Rinaldi, gli odiosi Barbieri… Leggo i nomi sulla lista dell’organizzatissimo Toma e riaffiorano altri ricordi. Goldoni, ad esempio, faccio fatica a ricordarmi la sua faccia ma subito è apparsa la valutazione: forte e simpatico. Quando sei un ragazzo e giochi con gli altri questo è una garanzia.
Poi Landi! Landi era un emulo di Annibale Frossi, bicampione del mondo con l’Italia negli anni ’30. Lo paragono non perché fosse forte come lui, ma perché, come lui, giocava indossando gli occhiali da vista. Landi portava dei Lozza, con lenti monocromatiche, giganteschi. Orbene, non so quale fu la sorte degli occhiali di Frossi in campo, ma ricordo bene quella di Landi. Era raro che uno di noi si beccasse una pallonata in faccia (a me, ad esempio, non è mai capitato) Landi, invece, ci era abbonato. Non voglio dire che qualcuno facesse apposta a colpirlo, questo no (ma perché, allora, dalla mia memoria emergono le fattezze di Mario Marzolo nel ruolo di esecutore? Quel Mario Marzolo i cui genitori gestivano il più esclusivo negozio di ottica di Verona?) diciamo, allora, che la casualità non lo agevolava. Quando Landi si beccava la sua abituale pallonata in faccia, si fermava il gioco. Gli si creava un capannello attorno, mentre aspettavamo si risollevasse, visto che aveva l’abitudine di piegarsi in due, tenendosi il viso tra le mani. Lentamente vedevamo i suoi capelli spettinati, il volto rosso porpora e quel cazzo di occhiali alla Elton John, sul naso, messi di traverso, ancora tutti interi. Era a quel punto che veniva insultato e ricoperto di improperi (Mario Marzolo tra i più avvelenati) perché giocare a calcio con gli occhiali era da irresponsabili e se inavvertitamente gli avessimo fatto del male non potevamo sentirci perseguibili. Ed ecco allora che se li toglieva, per il sollievo di tutti. Sì, perché senza occhiali Landi giocava molto, molto, meglio…

Di bello in questa iniziativa è l’ecumenismo che si respira. Erano anni quelli in cui a dividere i ragazzi erano tante cose, tutte legate (guarda caso) al concetto di appartenenza: la compagnia, la passione politica, le frequentazioni, l’istituto scolastico, il modo di vestire, i vizi, i vezzi… Eppure, quando ci si trovava al campetto, si metteva tutto da parte e si giocava e basta, i metri di valutazione e giudizio diventavano altri.
Possiamo dire che tra noi non si faceva distinzione di sesso, religione o razza? Cazzo se lo possiamo dire.
Sesso: due donne hanno calcato il terreno compatto del campetto: la Saretta Scipioni e la Oma. La Saretta, addestrata dal fratello Luca nel giardino di casa, se la cavava benino, la Oma invece era tutt’altra cosa. La Oma, in un’epoca in cui il termine transgender non era ancora stato coniato, si sentiva un uomo imprigionato in un corpo di donna. La cosa non era un mistero per nessuno, tant’è che il suo soprannome è la dialettizzazione del termine Uoma. La Oma aveva un concetto del gioco del calcio tutto suo. Un buon giocatore, deve possedere doti di leggiadria e grazia tali da permettergli le migliori evoluzioni stilistiche ma termini come leggiadria e grazia erano invece banditi dal suo vocabolario. Roba da froci… Quindi per lei la tecnica calcistica si concretizzava in un solo gesto: il tackle. Un paracarro, un terzinaccio inamovibile contro il quale non era improbabile andare a sbattere. Credo che il calcio femminile sia migliorato qualitativamente quando le calciatrici hanno riscoperto la loro femminilità sopita, come la Saretta e non come la Oma.
Razza. Qui scopriamo la grande differenza tra oggi e allora. L’Italia degli anni ’70 inseguiva l’esotismo sotto casa, tanto quanto oggi lo rifugge. Avremmo fatto la firma per avere un brasiliano (meglio ancora se di colore) a giocare con noi. Purtroppo non è mai accaduto. Credo, invece, che un africano sarebbe stato accolto con perplessità, ma non per razzismo, ma solo perché avevamo ancora vivide le immagini di Brasile-Zaire dei mondiali 74. Punizione per il Brasile, fischio dell’arbitro, dalla barriera degli africani parte un giocatore che calcia la palla tra la perplessità generale. Eto’ e Weah sarebbero venuti più tardi.
Infine religione: Mario Marzolo (figlio unico di madre tedesca) era per metà luterano. Nessuno gliene fece mai una colpa!
Libertè – Egalitè - Fraternitè: tutto al campetto sotto casa mia.

 
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