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22 - Quando in Arena

Quando amici di fuori Verona, mi chiedono informazioni sulle date migliori in cui assistere agli spettacoli sono categorico: mai il sabato e la domenica: troppa gente; mai alle prime rappresentazioni: i cambi di scena sono lenti perché i macchinisti non sono ancora rodati, quindi lo spettacolo dura molto più a lungo; mai l’ultima settimana: c’è un tale svogliatezza che la qualità ne risulta compromessa.
Come aveva scoperto, indignandosi a morte, Zuffi regista e scenografo di una memorabile edizione di Un Ballo in maschera, del ‘86.
Essa prevedeva una invenzione scenica bellissima. A palco vuoto, il tenore in vestaglia, illuminato da un occhio di bue, finiva di cantare la sua struggente romanza.
Poi, buio in scena.
Dopo una decina di secondi, il palco si illuminava a giorno e l’orchestra riattaccava.
Il pubblico, in visibilio (ooohhhh) constatava sorpreso che il palcoscenico era gremito di figuranti, giunti in gran fretta e di soppiatto.
Cominciava così la scena dell’omonimo ballo in maschera.
Un idea era di grande impatto visivo.
Chiaro, però, che la velocità era tutto; cosa che il bravo Zuffi ben sapeva. Per questo, come un mastino, mordeva i garretti degli assistenti registi che seguivano i figuranti, i quali, a loro volta, esortavano le comparse a sbrigarsi; cosa che facevano malvolentieri, anche perché i costumi di scena, con il caldo torrido estivo, sconsigliavano movimenti troppo repentini.
Ben poco si poteva fare, poi, per contrastare l’inarrestabile indolenza del lavoratore a fine mandato. Ad ogni rappresentazione la presenza delle comparse era sempre meno massiccia, sino a quando, all’ultimo spettacolo, la luce tornò su un palco desolatamente deserto. Con grande flemma le prime comparse fecero il loro ingresso mani in tasca e sciabattando, con l’aria funerea. Le grida dell’inviperito Zuffi raggiungevano la platea. Quando si presentò sul palco per ricevere gli applausi, al termine della rappresentazione, si disinteressò completamente del pubblico per insultare personalmente ogni singolo figurante sul quale riuscisse a mettere le mani.
L’episodio è figlio di una prassi consolidata tra i lavoranti areniani, il venir meno dell’attenzione all’avvicinarsi del termine di una stagione massacrante. Man mano che le rappresentazioni si succedono, persino le scenografie tende a spogliarsi di molti elementi. Quella de La Gioconda del 1988, per esempio, prevedeva la rappresentazione di una piccola Venezia. Visto che sulle gradinate comparivano le siluettes dei più bei palazzi sul Canal grande, lo scenografo ebbe la brillante idea di rendere azzurri i gradini che comparivano tra un palazzo e l’altro, così da rendere l’idea delle acque lagunari. Fece costruire un numero esorbitante di telai in legno, un metro per cinquanta centimetri, che si reggevano in piedi da soli, ricoperti di tela azzurra. Posizionarli tutti era un vero lavoraccio ma l’affetto era splendido. Peccato che fu visto solo una volta, alla prima. I manovali, da lì in avanti, semplicemente, si rifiutarono di metterli giù.
Qualcosa del genere accadde per la favolosa scenografia fissa dell’Attila verdiano del ‘85. Un gigantesco albero occupava il centro della scena e i rami, innumerevoli e lunghissimi, arrivavano a toccare la gradinata. Una cosa impressionante, bellissima. Quell’immensa pianta sembrava spuntata direttamente all’interno dell’anfiteatro romano, come fosse sorta dalla pietra stessa. Quale miglior metafora per rendere l’idea del crepuscolo dell’ordinato mondo romano e discapito della naturale forza di quello barbarico? Purtroppo, non era tempo di esegesi estetica per i colleghi macchinisti, infatti, dimostrando di possedere un insolito pollice verde e una naturale propensione all’ordine, provvidero a potare la pianta, rappresentazione dopo rappresentazione. All’ultima si era ormai ridotta al solo tronco e ad un paio di monconi di ramo. Attila, passando da Verona, evidentemente, oltre a non far crescere l’erba diede filo da torcere anche agli alberi! Capito perché a fine stagione i cambi sono velocissimi?

 
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