Difficile dimenticare la mia prima giornata di lavoro come manovale in Arena. Si chiuse con una lezione indimenticabile sulla teoria dell'equilibrio nel trasporto dei pesi e sui danni conseguenti ad una eccessiva attività fisica. Lezione che tenni ben a mente per gli anni a venire.
Scaricato il camion al Filarmonico, io ed un altro novizio, che superava abbondantemente i due metri, fummo incaricati di consegnare una consolle che serviva agli elettricisti. L’idea era che la trasportassimo a piedi. Il pezzo pesava un quintale ed ovviamente il grosso del peso gravava sul più basso dei due: io. Giunsi in Arena, stremato, non più in grado di flettere le braccia che, sembravano animate di vita propria, tanto erano scosse dai tremiti dovuti l'accumulo di acido lattico. Per infilare il cartellino, per la timbratura di rito, dovetti aspettare che tutti se ne fossero andati, mettendoci del bello e del buono per centrare la fessura. Marciando a passo dell’oca, raggiunsi al bar antistante l’entrata ed ordinai una cola, alla quale tentai di aggiungere zucchero con l’obiettivo di frenare la produzione di acidi. Purtroppo un paio di cucchiaini uscirono dal bicchiere e, quando riuscii a centrarlo, dalla bibita eruttò tanto di quella schiuma da tracimare aldilà del bancone sopra i bicchieri puliti. Il tutto sotto lo sguardo prima attonito, poi imbestialito del barista, una montagna d’uomo che sapevo soffrire di crisi di epilessia, perché aveva fatto il mio stesso liceo.
Balbettai qualche scusa contrita fingendo di non udire i suoi insulti, bevvi in fretta la bibita, sbattendomi il vetro sui denti, e me la diedi a gambe.
Per i sei anni successivi non ci rimisi più piede in quel bar.
Che ne sarebbe stato di me? Pensai mestamente quel pomeriggio, in sella al mio ciao, rincasando.
Fortunatamente, scoprii più tardi, durante le prove della sera nell’anfiteatro, non avrei più toccato gli strumenti una volta fuori della loro custodia, eccettuati i quattro timpani, la grancassa e il gong (proprietà dell'Ente lirico) che, una volta posizionati in buca, non richiedevano più alcuna manutenzione. Sistemate, quindi, le percussioni e i famigerati caregoni restavano solo da mettere i cuscini di velluto rosso sulle sedie degli orchestrali e il lavoro, sino al termine delle prove, poteva dirsi finito.
La cosa che mi colpì immediatamente, dell’Arena by night, fu la bella atmosfera. Tutto assumeva un altro aspetto, a partire da noi, che ci eravamo fatti belli, compreso chi non ti saresti mai aspettato. Come il mio capo Ivo, per esempio. Irriconoscibile, rispetto il pomeriggio: camicia ben stirata, capelli impomatati e un sorriso…, cosa c'era in quel sorriso? Improvvisamente ricordai che tre ore prima non aveva più di sei denti in bocca, mentre ora sfoggiava un sorriso alla Megane Gale. Fatta una debita indagine appresi che per Ivo la dentiera era un genere voluttuario e di lusso, da sfoggiare solo in occasioni speciali, un po’ come lo smoking.
Ma anche il linguaggio era diverso, all’improvviso.
“Tutto a posto nel golfo mistico?” mi domandò il collega anziano Elio, senza bestemmiare come invece gli era capitato di fare senza interruzioni per tutto il pomeriggio.
“Golfo mistico?” chiesi.
“Sì, il golfo mistico”.
“Si può sapere cos’è”.
“Non sai cos’è?”
“NO CHE NON SO COS’È! PUOI DIRMELO TU COS’È QUESTO C… DI GOLFO MISTICO?” sbottai irritato.
“Ma è La buca dell’orchestra..!” rispose lui scandalizzato.
Quella mia prima sera, la prova de Il trovatore, fu l’occasione del reincontro con Fuzzy. Quando lo incrociai, era splendidamente abbigliato da cavaliere, con tanto di spada e armatura. Stava parlando con una ragazza incantevole, vestita da zingara. Mi salutò caldamente abbracciandomi cosa che io evitai di fare, mantenendo le mani in tasca; ma solo perché il tremito non era ancora del tutto cessato. Poi, dopo un breve scambio di convenevoli, si avviò con la ragazza sottobraccio verso il palco, toccava a lui, mi spiegò.
In quel momento lo odiai.
Lo odiavo perché lui faceva un lavoro più bello del mio, perché guadagnava più di me (almeno così credevo), perché lavorava la metà della metà di me, perché la sera finiva prima, perché era a braccetto di una splendida ragazza e perché era vestito da cavaliere. Insomma in una parola: la cara vecchia Invidia ad un grado di purezza pressoché assoluto. Quel giorno maturai un sordo risentimento nei confronti del povero Fuzzy al quale, come tutti gli invidiosi, non riconobbi alcun merito; arrivando, meschinamente, persino a ribattezzarlo Gastone, attribuendo alla sola fortuna, la sua benigna condizione.
Quel giorno nacque in me anche una sorta di coscienza di classe. Era il primo giorno di lavoro e già considerava Gastone e i suoi accoliti che frequentavano il palco, i ricchi e privilegiati e me stesso e i miei compagni, i poveri e gli sfruttati. Una considerazione del mio ruolo (ma che in realtà era di me stesso) che, curiosamente, non mi avrebbe mai abbandonato per tutti i sei anni dell’esperienza in Arena. Anche se a volte penso che tutto questo non mi sarebbe mai passato per la testa se, quella prima sera, avessi visto Fuzzy con il ridicolissimo gonnellino da schiavo etiope che indossava in Aida.