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27- Senza Requiem

Quante cose bizzarre ho visto in Arena…
Mi viene in mente, ad esempio “Il coro più grande del mondo”. Un’americanata da guinness dei primati che però, negli spazi areniani, finì per acquistare una sua dignità artistica.
“Il coro più grande del mondo”, era in realtà un coro di cori, un insieme di ensemble vocali. Era composto da amatori provenienti da tutto il mondo, che si muovevano a spese loro, per il puro piacere di stare assieme, esibendosi davanti a un pubblico. E in effetti avevano l’aria di divertirsi molto.
Il suono, prodotto da tante voci, era particolarissimo. Me ne resi conto assistendo alle prove, nel tardo pomeriggio. Il direttore cominciò con i vocalizzi dal pianissimo al fortissimo. Ecco, uno dei ricordi più vividi che serbo è quel pianissimo. Un sussurro appena accennato, di un’intensità sonora stupefacente. Era il suono del silenzio a volume altissimo.
Li rividi la sera dello spettacolo, in rigoroso black and white, spuntare in fila indiana dagli arcovoli per occupare i loro posti. Le gradinate dell’anfiteatro sono solitamente occupate per 2/3 dal pubblico, mentre 1/3 è adibito a quinta del palcoscenico. Quando “Il coro più grande del mondo” si sistemò, i suoi componenti erano talmente tanti da occupare completamente la curva di gradinata del palcoscenico. Ricordo ancora i mormorii stupiti del pubblico e l’ovazione finale quando si sedettero tutti, fino all’ultimo componente. Un colpo d’occhio favoloso, perché permetteva di vedere l’Arena riempita in ogni ordine di posti.
Quella sera potrebbero essersi esibiti in una “Messa da requiem”, ma non ne sono certo, ricordo solo che l’Arena fu uno scenario all’altezza della loro potenza di fuoco.
Non avevo mai sentito parlare prima de “Il coro più grande del mondo”, né ne sentii parlare dopo, eppure è una di quelle trovate che, solitamente, uno spazio nei media lo conquista. A questo punto posso solo affermare d’essere uno dei pochi fortunati ad averlo visto e sentito in azione.
***
A proposito del Requiem verdiano, mi riporta infallibilmente alla mente il “Signore dei morti viventi” ovvero il Conte Dracula.
Pochi sanno che l’aristocratico transilvano, presentò un recital areniano. Naturalmente mi riferisco a un suo alter ego: Sir Cristopher Lee che lo interpretò più volte, sul grande schermo. Ebbene, Lee era un melomane sfegatato. Non solo un grande appassionato e un esperto d’opera, ma anche un cantante che, saltuariamente, amava esibirsi in pubblici gorgheggi.
Lee, con mia grande sorpresa, si esprimeva in un buon italiano. Scoprii così alcune cose su di lui che ignoravo. In primis si trattava effettivamente un aristocratico, in quanto figlio di una marchesa, ed era per metà era italiano, sempre grazia a mammà. Ecco spiegato, dunque, perché interpretasse tanto autorevolmente la figura di un conte e perché possedesse un orecchio educato al belcanto.
Ma per quanto affabile potesse apparire, Lee restava un uomo che incuteva soggezione. Avrei voluto tanto chiedergli un autografo, quella sera, ma non ne ebbi il coraggio.
Mi aspettavo che da un momento all’altro spuntassero quei maledetti canini.
Ma ciò che mi spaventò veramente fu sentirlo cantare: metteva i brividi!
***
Lee non fu l’unico Sir a calcare il palco areniano.
Ve ne fu un altro che presentò, niente meno, una prima mondiale assoluta. Guarda caso un Requiem, di sua composizione. Mi riferisco a Sir Andrew Llloyd Webber, il venerato Gran Maestro del musical britannico. “Jesus Christ Superstar”, “Cats”, “Il fantasma dell’opera”, “Evita”… parliamo del più grande compositore mai esistito, in tale ambito. Le sue arie più famose, da “Memory” in giù, sono entrate nel repertorio di molti interpreti lirici ed era naturale che, a un certo punto della sua carriera, nascesse in lui l’ambizione di fare il famoso salto di qualità, cimentandosi con una partitura classica.
Per sua somma sfortuna, decise di farlo in Italia, nell’Arena di Verona. Provo ancora imbarazzo a rammentare il suo flop.
Webber, con famiglia al seguito, era ovviamente presente all’esecuzione. Venne fatto salire sul palco e presentato al pubblico. L’Arena era semideserta (il che significa, comunque, cinquemila presenti...) ma dei cinquemila sembrava che nessuno sapesse chi fosse quel tizio. Pochi timidi applausi lasciarono Webber con l’aria smarrita e la sensazione di aver fatto una colossale ca**ata.
Quindi fu la volta dell’esecuzione del suo Requiem. La faccio breve, l’orchestra eseguì una delle pagine più indecorosamente inconsistenti mai risuonate tra quelle vetuste pietre. Aria fritta, per giunta con olio scadente.
Al termine dell’esecuzione il povero, sgomento, Webber fu richiamato sul palco, per raccogliere non l’auspicata ovazione, ma alcuni sporadici applausidistratti. Lessi sul suo volto l’espressione tipica del trombato alle audizioni. Webber quel giorno apprese una grande lezione: un pezzo pop può diventare un classico, ma far diventare un pezzo di musica classica un classico è un po’ più dura.
Gli inglesi, notoriamente snob, sanno essere condiscendenti nel loro trattare, dall’alto verso il basso, chi non è pari a loro. Questa forma di educata considerazione è di qualche conforto a chi si vede cassato nelle proprie ambizioni. Noi italiani, invece, siamo un tantino più grezzi. “Non vali un cazzo”, punto. Senza tanti voli pindarici. Ecco quella per Webber, fu la notte del “Non valgo un cazzo”.
Resta da riconoscergli, comunque, il grande coraggio (qualità che agli inglesi di certo non manca) di essersi scelto la strada più incerta. Poteva optare per la London Simphony Orchestra, per eseguire la partitura; la Royal Albert Hall, per rappresentarla; un codazzo di fan nel pubblico ad acclamarlo; critici benevoli ad incensarlo; e la sua prima mondiale, probabilmente, avrebbe avuto un altro esito. Invece scelse, come un gladiatore, il nobile anfiteatro. Finì, invece, come i martiri cristiani, ma senza neppure il beneficio di essere azzannato dai leoni.
Non fu nemmeno fischiato, solo ignorato.
La peggior sorte che possa spettare ad un artista.

 
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