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20 - Pavarotti

All’epoca in cui ho lavorato in Arena io, spopolava un trio di tenori che ebbe il massimo momento di notorietà con i mondiali di Italia ‘90. Dopodiché, quando un irriguardoso settimanale tedesco coniò per loro la colorita definizione de I 3 Salumieri, fu come se squillassero le trombe che ne annunciavano l’inarrestabile declino: venato di tragico patetismo per il nostro Pavarotti, fisico, più che fisiologico per Carreras; assai dignitoso e ben pilotato per Placido Domingo.
Nel 1987 Pavarotti venne ad esibirsi in un recital. All’epoca dal salumiere si limitava ad andarci. Era ancora considerato il numero 1 e, probabilmente, lo era davvero, ma io ero ansioso di verificarlo con le mie orecchie. Sarei stato in grado di capirlo? Avevo sentito decine di cantanti che, francamente, si assomigliavano un po’ tutti, cosa mi avrebbe fatto capire che lui era migliore degli altri? Avevo gli strumenti per comprenderlo? Dico la verità, mi avvicinai all’evento attendendomi una Rivelazione Mistica tipo quella vissuta al cospetto della Fracci.
Un’intuizione folgorante che guidasse il mio giudizio, e non fui deluso.
L’Arena non era mai stata così piena come quella notte. La folla aveva abbondantemente trasbordato oltre le transenne che delimitavano la seconda gradinata. I bagarini avevano fatto affari d’oro e ancora, molta gente si accalcava all’esterno nella speranza di riuscire ad afferrare qualche scampolo di romanza. Pavarotti quella sera non si sarebbe esibito da solo: l’affiancavano una soprano, un basso e un baritono il cui nome ricordo perché era uno dei più grandi: Piero Cappuccilli. Lucianone si era voluto far preparare una sorta di camerino direttamente sul palcoscenico, celato da una quinta, con un tavolino drappeggiato di prosciutto crudo anziché di broccati. All’epoca non era sottoposto ad una delle sue innumerevoli diete.
Quando Il concerto cominciò, ad ogni sua apparizione si levava un boato. Io ascoltavo attentamente ma ascoltarlo eseguire le romanze del repertorio classico, non mi diede alcun brivido. Mi sembrava, anzi, avesse la voce un po’ chioccia, abituato com’ero al tono stentoreo di un Martinucci, uno che non aveva problemi a farsi sentire anche dalla parte opposta dell’anfiteatro. Le cose cambiarono drasticamente quando i quattro artisti si presentarono assieme per cantare un pazzo tratto dal terzo atto di Aida. Avevo già alle spalle una sessantina di ascolti di quell’opera ma, con mio grande stupore, ad un certo punto, non mi ci raccapezzai più.
“Cos’è questa?” domandai a Renzo, temendo che qualcosa mi fosse sfuggito.
“Come cos’è? L’Aida”.
In effetti avevo sentito Cappuccilli intonare il classico Rivedrai le foreste imbalsamate, ma quel fitto cantato tra i quattro, a seguire, mi era del tutto sconosciuto. Ascoltai attentamente, no, mi sbagliavo, non l’avevo mai sentito eseguito in quel modo! Toccò ad un tratto a Pavarotti e non me lo dimenticherò finché campo.
“Sogno” intonò in una sorta di gemito cantato.
Zum-zum-zum, lo seguì l’orchestra.
“Delirio” continuò, emettendo una sorta di esclamazione incredula.
Zum-zum-zum, lo placcò l’orchestra.
“È questo” cantò in un sospiro simile l’afflato di un uomo vinto e disperato.
Mi unii all’ovazione del pubblico. Sono scemo, vi starete domandando? Possibile che tre semplici paroline una in fila all’altra potessero avere acceso in me un simile entusiasmo? La risposta è sì. Per il modo in cui gli erano uscite di bocca. In quel momento capii perché era considerato il più grande. Era la qualità della sua interpretazione a fare di lui un gigante. La capacità di cogliere le sfumature della partitura, rendendola viva, palpitante riuscendovi con la sola voce.
Di lì in avanti per me, quella chiusura del terzo atto divenne materia d’esame su cui valutare i tenori. Ed il confronto era impietoso, in bocca a tutti gli urlatori quelle tre parole suonavano come gli annunci dei venditori ambulanti negli stadi. “Gelati, caramelle, gomme”, “Sogno, delirio, è questo”. Nessun colore, nessuna finezza interpretativa. Il primo che misi sotto osservazione fu il mitico Bonissoli che proprio lì (forse percependo, in modo oscuro, d’essere sotto esame) si ingamberò.
“Sogno” cantò, ma poteva essere anche un Edizione straordinariaaaa.
Zum-zum-zum lo seguì l’orchestra.
“….”
Proprio così, taque
Zum-zum-zum andò per la sua strada l’orchestra.
“delirioèquesto” cantò tutto assieme.
Una waterloo.
Capii anche, in quella occasione, che il modo per valutare i cantanti non è ascoltarli nella romanza ma bensì nel fraseggio. La romanza sta alla lirica come il calcio di rigore sta al football. Maradona non è diventato famoso per i suoi penalty ma per le sue giocate. Anche il più scalcinato dei tenori regge dignitosamente di fronte al Nessun dorma ma è nelle trame, nella tessitura che si perde irreparabilmente e l’ho capito ascoltando Pavarotti.

 
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