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23 - La notte dei cori

Il connubio tra Verdi e l’Arena è indissolubile e non può essere altrimenti. Le messe in scene titaniche e ridondanti del compositore di Busseto su quel palco trovano la dimensione fisica più confacente alla loro messa in scena. Verdi è faraonico, sempre, non solo in Aida.
Ne ebbi da subito la riprova.
Il cartellone nella mia prima stagione, il 1985 prevedeva tre sue opere: Aida, Trovatore, Attila, e un balletto: Giselle. La prima ad andare in scena fu proprio Il trovatore in un allestimento di Ceroli, un'artista prima che scenografo, che amava lavorare con il legno. Per l’occasione, aveva creato tre macchine sceniche che, un po’ come i robot transformer giapponesi, aprendosi, chiudendosi, unendosi e dividendosi, si prestavano alle più svariate soluzioni sceniche.
Tra me e quell'opera fu amore a prima vista Mi piacque tutto: costumi, movimenti scenici (fischiati dal pubblico più tradizionalista), le musiche, le interpretazioni dei cantanti e, soprattutto, le parti corali. Nella mia ignoranza, pensavo che al coro spettassero solo singole arie, tipo Va pensiero nel Nabucco. Scoprire, invece, che poteva interagire con i cantanti, fu per me una rivelazione. Nessuno come Verdi, a me sembra, usa il coro in tutto il suo potenziale, forse nella Carmen di Bizet ho sentito qualcosa di simile. Naturalmente, un coro protagonista, vivido e vigoroso, in un teatro delle dimensioni dell’Arena ha due pregi particolarmente apprezzati dal pubblico: si vede e si sente.
Ma Verdi ha un’altra qualità, che l’ascoltatore forzato com’io ero coglie immediatamente, ossia la capacità di cambiare registro in modo inaspettato; passando, repentinamente, da un legnoso zum-pà-pà a una melodia delicata e struggente, come se uno squarcio improvviso si aprisse nella partitura. Mi è capitato spesso di fermarmi ad ascoltare questi frammenti, interrompendo una conversazione, la lettura o una partita a carte. Seguendoli avulsi dal tutto, presi singolarmente, sono momenti di musica difficilmente comparabile per qualità. Non chiedetemi dove e quando, semplicemente ci sono e sono moltissimi.
La leggenda di Verdi deve molto all’Arena, ma il Genio verdiano l’ha sempre ripagata per la sua fedeltà, in moneta preziosa e sonante. Il ricordo più vivido di tale scambio lo ebbi durante una tormentata esecuzione del Nabucco. Tormentata perché un diluvio ne interruppe lo svolgimento. Ogni tanto in Arena accade, essendo un teatro all’aperto, solo che quella volta la pioggia arrivò durante l’intervallo del primo atto. Un particolare importante. Secondo le norme SIAE, infatti, se l’interruzione avviene prima, va rimborsato il biglietto agli spettatori; dopo, invece no. Come è ovvio, quindi, pur di non rimborsare i quattrini l’Ente Arena è disposto ad attendere anche per ore il ritorno del bel tempo. Ma per quella sera problemi non ce n’erano, l’incasso era salvo.
Comunque, dopo una mezz’ora, la pioggia battente cessò e il pubblico riprese il proprio posto. Chi non si fece vedere, invece, erano gli orchestrali. Un’impalpabile acquerugiola, infatti, continuava a cadere e, come la voce dello speaker non si stanca mai di ripetere in tali circostanze, anche solo poche gocce di pioggia possono danneggiare strumenti musicali di ingente valore. Intanto il tempo passava, mentre la folla si dedicava a quegli straordinari happening che solo in quel contesto è dato vedere. Da alcuni settori degli spalti, infatti, occasionalmente si levavano dei cori, evidentemente eseguiti da gruppi dilettantistici, in gita di piacere. La gara tra loro andò avanti per un po’, vivacizzata da una sorta di applausometro del pubblico. L’atmosfera serena si guastò improvvisamente, quando giunse l’annuncio che lo spettacolo poteva dirsi concluso. L’ufficio meteorologico di Villafranca, infatti, informava che la perturbazione era ben lungi dall’essere conclusa. L’avviso fu seguito da una valanga di fischi e un lancio fitto di cuscini verso il palco. Non era una bella situazione, sembrava che il tutto fosse stato studiato apposta per fregare il pubblico pagante che di farsi turlupinare non aveva nessuna intenzione, dimostrandolo restando ai propri posti. Sarebbe venuta la celere a far sgombrare i melomani, pensammo allarmati? Fortunatamente no, perché fu allora che accadde un fatto straordinario.
I coristi areniani, forse galvanizzati dalla presenza di tanti colleghi sulle gradinate, prima alla spicciolata, poi, in numero sempre maggiore, si fecero avanti occupando, ancora in costume, il palco. A gesti, spiegarono agli spettatori tumultuanti che loro si sarebbero esibiti. Il maestro Oren, avvertito della decisione, fece piazzare davanti a loro, schierati, la piccola celeste, una pianola in legno, a sostituire tutta un’orchestra. Si girò verso il pubblico e all’improvviso si fece silenzio. Cominciarono allora a risuonare le note solenni e dolenti del Va pensiero, seguite dal pubblico in piedi mentre l’impalpabile pioggerellina continuava a cadere fitta e leggera. Al termine dell’esecuzione partì un’ovazione cui fece seguito un bis e dieci minuti d’applausi a coro e maestro.
Anche quella sera gli spettatori se ne andarono soddisfatti. Non avevano assistito al Nabucco ma vissuto un esperienza unica e magica che solo quel teatro poteva regalare loro. Ma, cosa più importante, l’idea di improvvisare quella performance non era venuta al prefetto, per ragioni di sicurezza, ma ai coristi che, per nulla al mondo, avrebbero rinunciato ad interpretare quel pezzo.
Quella io la ricordo ancora come la notte dei cori

 
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