Josè Carreras visse il proprio dramma di uomo, prima che d’artista, proprio negli anni in cui lavoravo io.
Lo sentii cantare ancora sano, lo vidi in visita in Arena durante la grave forma di leucemia che lo aveva colpito, infine, lo rividi tornare a cantare dopo l’intervento di trapianto del midollo osseo che gli ridiede la vita. Carreras era amatissimo da noi addetti ai lavori perché era una star ma si comportava in maniera semplice e cordiale. Una amabilità non manieristica od affettata, spontanea. Quando si seppe che era alla ricerca di un donatore di midollo furono in molti tra gli areniani a farsi aventi. Certo, spinti dai vantaggi che sarebbero derivati dalla riconoscenza del tenore, ma anche per affetto sincero.
Una cosa che di Carreras mi sconvolse, invece, furono le sue attenzioni verso la claque.
La claque dell’Arena consta in un signore, semianalfabeta, dalla mascella prognata, che ha un’unica dote: la voce stentorea, e un’unica capacita: il tempismo. Costui, al termine delle romanze più significative o di ogni singolo atto, interviene tra quella frazione di secondo che separa la fine della musica dall’applauso, lanciando un grido: “Bravoooo…”.
Bravo chi? Ma chi lo paga è ovvio.
È triste dirlo, ma alcuni cantanti lo prendevano in disparte e gli allungavano una mancia, naturalmente dopo aver scritto il proprio nome su un foglietto, per evitare che l’idiota se lo dimenticasse. Questo signore arrivava in platea tutte le sere senza, naturalmente, il biglietto. Se nessuno lo aveva pagato per un servizio personalizzato, si limitava ad encomi generici: bravo maestro, brava orchestra, bravo tenore, e così via.
Ivo raccontava sempre che una sera, costui gli chiese come si chiamasse, quello che viene dopo il basso. “L’alto” rispose Ivo. “BRAVO ALTO!” urlò l’altro. Io credo che l’episodio sia accaduto veramente e sono altrettanto certo che l’uomo fosse consapevole d’esser stato preso per i fondelli, ma gridare “bravo alto” era solo un modo come un altro per mettersi in mostra e dimostrare quanto poco gliene fregasse di ciò che gli girava attorno. La cosa straordinaria, infatti, è che alla musica non faceva nemmeno finta di interessarsi! Più di una volta mi era capitato di ritrovarmelo al fianco, a fine spettacolo, mentre berciava le sue grida a pagamento, per vederlo poi rivolgersi al pubblico alle sue spalle, esclamando con tono un po’ meno roboante, ma sempre ben distinguibile, “Dai che i spaghetti iè coti”.
Rivoltante.
Tornando a Carreras, una sera lo sorpresi nell’ombra degli arcovoli, ad allungargli 200.000 lire. Trovai la cosa sconcertante. Che bisogno aveva un’artista di quel calibro, amatissimo dal pubblico, di pagare una tale somma a quel cialtrone perché gridasse il suo nome a mezzo mondo?
Ne fui sorpreso e rattristato.
In quell’occasione, però, compresi meglio la fragilità che spesso affligge molti artisti, anche grandi artisti, sofferenti una terribile malattia: l’incapacità di valutarsi oggettivamente. Quanti tra loro, in tutti i campi, non sono in grado di reggere una battuta d’arresto, un passo falso, una critica maligna? Incapaci di distinguere tra un incidente di percorso e una disfatta. La loro benzina è l’altrui riconoscimento e quando ne rimangono a secco arrivano a pagare per del carburante, anche se adulterato. È questa la ragione per cui molti di loro si circondano di adulatori, non si tratta di vanità, ma di debolezza, l’umano bisogno di sentirsi rassicurati che in un artista può diventare una droga, da cui dipende la sua stessa sopravvivenza. L’uomo della claque aveva per Carreras la stessa funzione della lucetta notturna nella camera dei bambini: tenere lontane le ombre che sono solo nella loro testa.
Col tempo, l’ente tentò timidamente di formare una piccola claque ma, evidentemente, al progetto non credeva del tutto. Il compito, infatti, fu affidato ad una anziana coppia di sedicenti amici della lirica che tutte le sante sere occupava i gradini adiacenti il palco. Lei secca, lunga e nasuta aveva uno stile personalissimo di modulazione del grido di battaglia. “Bra – viiiii”. Dove il vi era un gridolino acuto emesso in falsetto sul modello delle soprano. Era capace di ripeterlo anche una cinquantina di volte arrivando a farsi odiare da chiunque le passasse a portata d’orecchio.
Mi costa dirlo, ma alla lunga ci face rimpiangere il suo collega e avversario.