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4 - Apprendimento forzato

Spesso mi è capitato, in compagnia di conoscenti ignari dei miei trascorsi areniani, di suscitare sorpresa sfoggiando una discreta competenza in ambito di musica lirica.
È vero, a volte sorprendo anche me stesso e mi rendo conto quanto abbia appreso per sei anni, durante la stagione estiva, facendo il manovale in un cantiere all’interno di un antico anfiteatro romano. Del tutto digiuno di musica lirica o classica ho trasportato, per mesi e mesi, quello che trasportano tutti i facchini del mondo: dei semplici e voluminosi carichi. Guardando, dove mettevo i piedi, e ascoltando.
In un luogo nel quale era impossibile non sentire.
È stato così che, inconsapevolmente e in modo del tutto casuale, disorganico e inconsapevole: ho appreso.
A dimostrazione del fatto che il Sapere, come una fonte di calore, è in grado di irradiare attorno a sé un’energia che alimenta la conoscenza. Tanto si è vicini alla fonte di emissione, più si assorbe naturalmente.
Quindi, pur occupando il gradino più basso di una istituzione musicale, sono riuscito, sbirciandone le forme da un buco della serratura, a farmi una discreta competenza in materia.
Quando fai il portastrumenti alcune cose sulle partiture e sui compositori le impari tuo malgrado.
Ad esempio quando io affermo che più un autore si avvicina all’epoca contemporanea e più l’apporto della ritmica diventa preponderante nelle sue composizioni, non ho nessun timore d’essere smentito. Nessuno potrebbe confutare questo mio assunto.
Questione di orecchio? No, di braccio.
Se affermo che Puccini utilizza più percussioni di Verdi, Stravinski più di Puccini e, infine, Teodorakis più di Stravinski lo dico perché tamburi, rullanti o xilofoni li ho portati io in buca. So bene che spazio andava creato per far posto ai quattro percussionisti necessari a Teodorakis per pompare adrenalina all’anemico corpo di ballo areniano e so anche che oltre timpani, grancassa e gong, Verdi non andava.
Mettiamo cronologicamente in fila i quattro compositori ed ecco dimostrato un assioma, che nessun musicofilo può mettere in discussione. Ne può prendere semplicemente atto.
Ho assistito a più di 250 rappresentazioni che, con le prove, superano le trecento. Nel retropalco, in cui vivevo, gli altoparlanti mandavano tutta l’esecuzione, in corso all’esterno, coperta dal bisbiglio del direttore di scena impegnato a chiamare questo e quello in azione.
Questo tipo d’ascolto forzato, continuo, alla fine ha educato, in un certo qual modo, l’orecchio alla musica. Alla fine ci si fa un’idea di ciò che si è sentito ed è altrettanto naturale che si assegnino le proprie preferenze. Il quel momento si forma un giudizio critico.
Il mio è piuttosto semplice.
Ci sono state opere che non hanno lasciato in me traccia alcuna, penso, alla Forza del destino di Verdi, Andrea Chenier , di Giordano o la Gioconda di Ponchielli. Ricordo queste tre opere come un monolite di note, nel quale non si aprivano squarci melodici degni di destare la mia attenzione, se si eccettua, ovviamente, la celeberrima Danza delle ore, il cui inserimento nella Gioconda sorprendeva tanto me quanto il pubblico. Ma io questa la conosco!
Altre opere, invece, alle mie orecchie, hanno completezza e compiutezza.
Il non plus ultra, in questo senso, è la Cavalleria Rusticana, di Mascagni. Dall’ouverture all’ultima nota non c’è nulla fuori posto, avvantaggiata però, in questo, dalla breve durata. Cosa sarebbe il trittico verdiano: Rigoletto, Trovatore e Traviata decurtato di un’ora e mezzo? Risplenderebbe solo l’argenteria.
Perfetta è Tosca.
Io la ritengo l’Opera per eccellenza. Lo è per durata: tre atti ben equilibrati. Lo è per ambientazione e trama: nulla di ridicolo od improbabile come, purtroppo, accade nella maggior parte dei libretti. Lo è, infine, soprattutto per la musica. Romanze perfette perché, oltre ad essere oggettivamente belle, si inseriscono armonicamente nello sviluppo drammaturgico della vicenda. Tosca ha, poi, un’altra particolarità sonora: il leit motiv. Una trama musicale che ricorre, con diversi echi e accenti, atto per atto. Tutto ciò le conferisce un senso di omogeneità che, il mio orecchio inesperto, non ha riscontrato in altre.
Se Verdi è talento, forza e disciplina, credo che Puccini, invece, rappresenti l’ecclettismo. Fantasia, varietà e sperimentazione producono sempre frutti diversi. Non tutti buoni purtroppo.
Tra quelli sprazzi di ascolto forzato e no, di Puccini, per esempio, detestavo le chincaglierie orientali: Madama Butterfly e Turandot. Mi sbaglierò ma mi pare che qualsiasi musicista occidentale, confrontandosi con le sonorità dell’estremo oriente, fatichi a sfuggire all’effetto cin-ciu-e, inossidabile successo dello Zecchino d’oro, o del plin-plin-tortellin del refrain pubblicitario. Ecco: Puccini non fa eccezione, specie nella Madama. Trovo convenzionale La Boheme, cui manca il turgore de La Tosca, mentre, giudico, La fanciulla del west, l’opera più moderna ed atipica che abbia mai ascoltato.
Opera che mi colpì profondamente, anche per una serie di altri motivi.

 
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