1- Genesi di uno stato - G Luca Boschiero Website

Vai ai contenuti

Menu principale:

1- Genesi di uno stato

Nell'inverno 1984 io e Gianluca Fuzzy Munari, giovani studenti universitari, maturammo la decisione di fare un viaggio negli Stati Uniti. Pianificammo un tour di un paio di mesi che ci avrebbe portato in ogni angolo di quella nazione; Morris (Minnesota) compresa, ridente località nella cui università, la zia di Fuzzy, insegnava logica. Nutriti a spesse porzioni di film camp, immaginavamo un soggiorno alla Animal House divertente e godereccio.
Elaborato il piano di viaggio, restava un unico problema: reperire i fondi per pagarci il soggiorno. Da buoni veronesi individuammo, come lavoro estivo ideale, quello di comparsa in Arena. Sapevamo che si trattava di un'attività divertente, poco faticosa, e che permetteva di guadagnare bene; almeno a sentire mia sorella Gabriella che, già da qualche anno, lavorava come figurante.
All’avvicinarsi della primavera dell’85 scoprimmo, però, di non essere i soli a trovare l’attività seducente. I candidati al ruolo erano più di un centinaio, per una decina di posti. Affollamenti o meno, comunque, io e il mio amico non avevamo dubbi: perché non avrebbero dovuto sceglierci? Così, ci attivammo per trovare delle raccomandazioni, lui rivolgendosi ad un politico locale ed io a mia sorella.
Il giorno della selezione Fuzzy si presentò in tuta da ginnastica, mentre la Gabri accompagnava me. La tuta era l'elemento identificativo che avrebbe reso Fuzzy facilmente riconoscibile come soggetto da beneficiare, secondo accordi presi tra il politico intrallazzatore e l’addetto alla scelta, mentre io mi affidavo interamente alla capacità mimica della mia consanguinea che, dalle gradinate, puntava l’indice al mio indirizzo.
La faccio breve, Fuzzy fu scelto, io no.
Mia sorella, allora, mi consigliò di fare domanda, attraverso l'ufficio collocamento, per un posto di manovale, garantendomi, questa volta, la certezza dell'assunzione; ovvero: questa volta avrebbe usato tutti quegli strumenti di persuasione che nella precedente selezione aveva tenuto a riposo.
Fu di parola.
Quando mi presentai al reparto amministrativo dell'Ente Lirico, con i documenti fornitimi dall'ufficio collocamento, mi fu detto che avrei fatto parte della squadra dei portastrumenti, noti nell'ambiente come: gli uomini d'oro.
L’intenzione era stare in loro compagnia un anno ma, alla fine, ci rimasi per sei.
I portastrumenti, lo dice il nome stesso sono gli addetti al trasporto di ferri del mestiere dei musicisti. Nella mia immaginazione mi figurai a girare per la città con un violino, amorevolmente avvolto nella carta velina, per fargli prendere aria, come a un cane.
In realtà, venni a sapere che il lavoro era un po’ più impegnativo.
I musicisti, guidati dal direttore d'orchestra, provavano giornalmente le partiture che avrebbero poi suonato in pubblico; prove che non potevano certo tenersi in Arena, sotto il ruggente solleone estivo e mentre le maestranze lavoravano per allestire le scene. Pertanto l’orchestra, con i cantanti, si trasferiva al fresco del Teatro Filarmonico per provare, facendo ritorno all'anfiteatro solo la sera, per cimentarsi nelle prove dello spettacolo vero e proprio.
I musicisti, e qui entravo in gioco io, non si portavano gli strumenti appresso, occorreva, quindi, che qualcuno si occupasse di farlo.
Per il trasporto era necessario un intero TIR. Caricato al mattino in Arena, percorreva i cinquecento metri che dividono i due teatri, per essere scaricato al Filarmonico. Il tardo pomeriggio l’operazione si svolgeva al contrario.
Al tale compito erano deputati i 12 manovali portastrumenti: 5 veterani assunti a tempo indeterminato e 7 novellini in appoggio per il periodo estivo; divisi in due squadre di lavoro miste. La squadra del mattino, quella della pomeriggio e, la sera, tutti insieme appassionatamente.
Tutto questo lo appresi successivamente, però, perché iI primo giorno di lavoro, quando mi presentai ai colleghi al cancello 57, non sapevo assolutamente cosa aspettarmi.
L'Arena è architettonicamente costituita come una doppia fila d’archi. Gli archi a terra sono numerati dall'1 (l'entrata principale) al 74, il 37 (diametralmente opposto all'1) è riservato all’entrata delle maestranze e delle scenografie, il 57 all'orchestra. Imboccando il volto, che dal cancello 57 porta in platea, vi sono 3 locali, appositamente allestiti, adibiti a ricovero degli strumenti.
Entrando nello stanzone, che ospitava gli strumenti più grandi presi contatto con la dura realtà. Essa constava di due lunghe file composte dai dodici contrabbassi nei loro sarcofagi lignei, in sei arpe in casse zincate, in svariati violoncelli entro parallelepipedi di alluminio, in quattro timpani color rame, nella traditrice e instabile grancassa montata sul suo trespolo a quattro ruote, nell'infido e tagliente gong, e nei famigerati caregoni (seggioloni in dialetto veronese) in uso ai contrabbassisti, alti e pesanti scranni, con poggiapiedi che era facilissimo darsi negli stinchi. Gettai un'occhiata costernata alla cassa di legno bianco che conteneva impilati i cosiddetti strumentini, quelli cui avevo affidato le mie residue speranze di lavoratore poco propenso allo sforzo fisico.
Tutto quel ben di dio andava stipato con scrupolosa attenzione sul TIR, dal quale due persone issavano le casse, mentre le quattro a terra facevano spola con il carico.
Il tutto sotto lo sguardo attento del camionista, l’imperturbabile Adami, che, scoprii, il più delle volte si limitava a mero ruolo di consulenza e indirizzo, intento a guardarci lavorare, sigaretta in mano, tracannando spuma al ginger.
Cominciava così il mio primo giorno di lavoro come portastrumenti.

 
Copyright 2016. All rights reserved.
Torna ai contenuti | Torna al menu