13 - L'Armando il sommelier - G Luca Boschiero Website

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13 - L'Armando il sommelier

La calzoleria dell'Armando era posta su due piani, al primo il bancone con gli scaffali, al piano superiore il presunto deposito delle scarpe che aveva trasformato nel suo sancta sanctorum. Un bel giorno, grazie ai buoni uffici del Pippo finalmente ebbi l’onore di essere invitato anch'io al piano nobile. Con mia grande sorpresa ebbi accesso ad un ambiente che aveva più della taverna che del magazzino. Al centro della stanza un tavolo, con due panchette per lato, mentre sugli scaffali al posto delle calzature facevano bella mostra di sé grissini, biscotti e salumi con attrezzatura per il taglio compresa. In un angolo, un piccolo frigo stipato di bottiglie. Prosecco, naturalmente, acquistato in damigiane a Valdobbiadene e imbottigliato da lui personalmente. Non ho mai avuto una grande opinione di quel vino. Le bottiglie erano chiuse da un tappino di plastica su cui ne era stato applicato un altro a corona. Finita la bottiglia spesso Armando rimetteva al proprio posto il tappino. Bene, era tale la quantità di anidride carbonica ancora presente nella bottiglia che spesso lo si vedeva saltare con un botto volando fino al soffitto. Secondo me il fenomeno era da attribuirsi a sofisticazione, mentre per Armando finivamo quelle bottiglie così in fretta che il gas non aveva fisicamente il tempo di abbandonarla.
Cominciò per me la stagione delle briscole. Partite interminabili tra un atto e l'altro, abbondantemente innaffiate di spirito. Sporadicamente interrotte da qualche figurante con i piedi indolenziti, dal maltempo che mi imponeva di schizzare in platea o dalla signora Amadei, la capa di Armando che veniva a lamentarsi per la sua assenza dietro il banco. Devo dire che la persona cui dedicava minori attenzioni era proprio lei, si faceva scrupolo di finire la partita prima di darle bado. Vista la mole imponente, infatti, la signora non riusciva a salire la ripida scaletta che portava al piano superiore e, quindi, ignorava quale genere di attività vi si svolgessero. Solo una volta, ricordo, esasperata, affrontò la scalata. Vedemmo spuntare la sua testolina dal pavimento e la sua espressione inorridita.
“Armando!” gridò scandalizzata “Lei non è pagato per giocare a carte!”.
Io e Pippo ci irrigidimmo temendo il peggio.
Lui non alzò nemmeno gli occhi dalle carte: “Signora, vorà dir che la me licensiarà”.
Anche in quell’occasione terminò la partita.
Talvolta Armando si recava a bere un prosecco di qualità superiore al bar degli orchestrali, che riteneva più a la page rispetto a quello dei manovali.
Anche nell’assunzione del vino Armando aveva i suoi riti, che andavano scrupolosamente rispettati. A partire dalla mescita. L’inserviente conoscendolo bene, sapeva che nel bicchiere non doveva essere lasciato il famigerato collo del prete. Il liquido doveva arrivare a filo del bicchiere, perché se così non fosse stato, quello spazio sarebbe stato considerato appropriazione indebita. Armando sapeva che da una bottiglia dovevano venire 6 flute, non uno di più e non uno di meno e vegliava affinché osti disonesti non arrivassero a ricavarne 6 e1/2 o addirittura 7! Armando, in questo era spietato, tanto da mettere puntualmente in soggezione il barman che, spesso, in un eccesso di zelo, finiva per buttare buona parte del vino sul banco riempiendo il bicchiere oltre l’orlo.
Dopo essersi abbondantemente inumidito il retro delle orecchie con il prezioso liquido fuoriuscito, Armando passava alla degustazione; impegnandosi in un rito, sconosciuto a qualsiasi sommelier degno di questo nome, che avveniva in due fasi.
Prima il flute veniva portato alla bocca, per l'Assaggio, operazione che consisteva nel portare il liquido ai lati della bocca e, grazie ad un movimento articolato dal basso verso l'alto delle guance, sottoposto ad un ribollio, al quale seguiva un vero e proprio risucchio, nemmeno lontanamente imparentato con la generica deglutizione. Tutta l'operazione aveva dei curiosi effetti sonori, infatti, partiva come un lieve ciangottio per chiudersi con un, ben più prosaico, effetto sciacquone.
Cessata l’interminabile operazione dell’Assaggio, dopo le rituali frasi: "Ho Sete. Sono arso", pronunciate con voluttà ben più marcata, Armando provvedeva a bere, senza lasciare nulla alla messa in scena. Solo un colpo secco della testa, all'indietro, ed un unico lungo sorso. L'espressione finale, nell'inghiottire, lo rendeva simile ad un uomo colpito da una coltellata, le palle degli occhi roteanti.
Impossibile non far caso a lui.
Cosa che l'Armando, da guitto consumato, apprezzava assai. Capitava, anzi, spesso, che un avventore curioso, dopo averlo seguito nella performance, si affrettasse a chiedere: “Per me lo stesso”.
Appare chiaro, quindi, perché quando mi capitava di incrociare Pippo e l'Armando diretti al bar, lasciassi qualsiasi impegno per unirmi a loro.
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In seguito, ebbi l’onore di essere invitato a casa sua a conoscerne la moglie: l’Adriana. Una donnina tonda che arrivava alle spalle del marito. Armando non aveva figli e in casa era il monarca assoluto. Amava dare disposizioni secche e precise alla moglie la quale non gli dava alcun bado.
L’orgoglio dell’Armando, versione casalinga, erano i due frigoriferi e il colino per i sughi. Le prime proprietà mostrate agli ospiti Uno dei due frigoriferi era adibito a contenere esclusivamente: prosecco e angurie; mentre il colino per i sughi, in realtà, non era altro che un filtro d’ottone per il tè, nel quale invece delle foglie sminuzzate la signora Adriana infilava aglio e cipolla. Armando non poteva mangiare né l’uno né l’altro ma, consapevole che l’aroma delle due verdure era indispensabile, aveva escogitato quel sistema. Mostrare il suo colino in azione era un momento di orgoglio assoluto.
L’unica persona che Armando sembrava temere era la suocera una vispa novantenne in sedia a rotelle che non si faceva certo intimidire dalla parlantina del genero.

 
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