Vulgata vuole che “ai nostri tempi” i ragazzi fossero sempre fuori casa a giocare; e non, come oggi, chiusi tra quattro mura, davanti ai videogiochi. In realtà non è così, negli anni ’70 esisteva un’antenata della PES, denominata Subbuteo.
Il Subbuteo consisteva in un tappeto verde, che rappresentava il terreno di gioco, sul quale si posizionavano dei micro giocatorini posti sopra una base semisferica. La palla era anch’essa semisferica e andava colpita dai giocatorini che si muovevano grazie a una “schicchera” scagliata, tra indice e pollice, dal giocatorone, ovvero il tizio in carne e ossa che si era comprato Il Subbuteo. Le due piccole porte, perfettamente proporzionate (con tanto di retine), erano protette da un portierino che, a differenza degli altri giocatorini, veniva manovrato da una lunga leva che gli permetteva una maggiore mobilità.
Se un ragazzino del giorno d’oggi leggesse la descrizione del gioco, probabilmente, penserebbe a una colossale puttanata. E così è, in effetti.
Io all’epoca ero combattuto. Il Subbuteo costava un botto e miei non me l’avrebbero mai comprato. Abituato a screditare tutto ciò che non potevo avere, mi domandavo: “Il subbuteo è una cagata perché non posso averlo o perché lo è veramente?” Che tenero… a tal punto mi mettevo in discussione!
Due miei amici, per la pelle, avevano il subbuteo: il Rino e Mario.
Visto che il tappeto non poteva essere semplicemente appoggiato sul pavimento, i Subbuteisti lo fissavano a una tavola. Ovviamente il tipo di tavola faceva la differenza. Doveva essere leggera (per la trasportabilità) ed elastica (per la giocabilità). Il Rino ebbe un’idea: crearne una in riso soffiato. Se la fece fabbricare da mastri risai di Castel d’ario. La sua intenzione, se avesse avuto successo, era commercializzarla. Il sabato mattina in cui, accompagnato dal padre, andò a ritirare il primo campione accadde, però, l’imponderabile. Causa un incidente, la l’auto del padre fu costretta ferma, in fila, per ore. Preso di crampi della fame, il Rino si trovò costretto a sbocconcellare la tavola. Cominciò dal campo per destinazione, cercando di limitare i danni, “L’avrei ricomposto con dei ciocorì” ebbe a dichiarare in seguito. Tutto inutile. La faccio breve: arrivato a casa era sopravvissuto il solo cerchio del centrocampo (consumato, ricoperto di gorgonzola, la sera stessa, in un frugale spuntino). Così tramontò la sua brillante idea. Una tavola in pioppo della bassa padana, sostituì il precedente manufatto.
L’asse di Mario, invece, era in ebano; inviatagli, dalla Namibia, da parenti teutonici che commerciavano in avorio. Bellissima! Quando il Rino la vide per la prima volta, ci volle del bello e del buono per convincerlo che non si trattasse di liquerizia di Rossano Calabro. Mario era uno sperimentatore. Ricordo quando asperse il campo con silicone spray (preso da Cappelleti). Alla prima schicchera il giocatorino colpito spiccò letteralmente il volo, uscendo dalla finestra aperta. Mario stava al quinto piano. Provvidenzialmente, a frenarne la caduta fu la tenda dell’Hotel Doge. Mario fu costretto a chiedere a quel tizio orrendo che lo gestiva (dalle cravatte larghe a dai capelli malamente tinti), di recuperarglielo. Quel giorno si prese un bello spavento: nulla, infatti, terrorizza più un subbuteista che l’ipotesi di smarrire un giocatorino.
Scherzi a parte, mi piaceva assistere alle loro partite, anche se Mario non gradiva la mia presenza. Basta aver letto fin qui per capirne la ragione. Non sopportava il mio sarcasmo e iconoclastia. Adesso non vorrei farlo passare come antipatico o, peggio, egoista. Non è così. A casa sua ero sempre ospite gradito, mi metteva a disposizione i suoi Diabolik e i suoi Playboy (anche se non voleva li leggessi in bagno…). No, Mario aveva un buon carattere ma bastava poco per fargli saltare la mosca al naso. Per lui, ma anche per il Rino, la partita di Subbuteo aveva un che di sacrale e non volevano che rovinassi l’atmosfera con commenti fuori luogo.
Le partite cui potevo assistere io, pertanto, si giocavano a casa del Rino, nella stanza in fondo, quella dove aveva lo stereo. Ogni tanto faceva capolino sua madre. Ci misi un po’ a capire che non era minimamente interessata al gioco, voleva solo accertarsi che il figlio non si mangiasse anche la tavola in pioppo.
Più che a una partita assistevo a un rito, una sorta di cerimonia del tè nipponica. La preparazione era certosina. Ricordo quando aprivano l’elegante scatola che conteneva i giocatorini. La cura con cui li sistemavano sul campo. C’era un che di mistico.
Il gioco in sé non l’ho ancora capito. Dopo il calcio d’inizio uno dei giocatoroni (quelli in carne e ossa) cominciava a far circolare la palla tra i suoi giocatorini, ma non si capiva come l’avversario gliela potesse togliere. Noiosissimo. Le telecronache immaginarie erano fiacche, tanto quanto il ritmo di gioco. Non a caso il momento più emozionante (per dire!) era il rigore. Quando si dava il rigore? Assolutamente ad minchiam. Ogni tanto qualcuno dei giocatoroni, in attacco, urlava: “Rigore”. La cosa incredibile è che trovava l’entusiastica adesione dell’avversario: “Sì è vero, rigore!”. Questo in totale controtendenza rispetto a quello che avviene nella vita reale. Sportività? No, era solo che l’unico momento realmente dinamico e vivo del gioco era quello, quindi ogni occasione era buona per tirare un rigore.
Il Subbuteo aveva anche una certa affinità con il modellismo. Potrei dire una cazzata, ma mi pare di ricordare tra gli accessori del Subbuteo ci fossero anche le panchinette, le tribunine con i tifosini, addirittura l’arbitrino. Ecco questa era un aspetto che mi affascinava. Ricordo che i ragazzi, a un certo punto, cominciarono a comprare squadre di giocatorini grigi, per dipingerli a mano. Vista le dimensioni era difficile fare un buon lavoro, ma loro erano bravissimi. Io ero un pasticcione, incapace persino di mettere il dentifricio sullo spazzolino, quindi ammiravo ancor più la loro maestria. Grazie a minuscoli pennellini, erano persino in grado di dipingere le strisce verticali della maglietta, su pochi millimetri di superficie. Il Rino aveva un pennellino costosissimo, comprato in quella Boutique dell’arte che c’era in via Delle Fogge. Non era semplice vello di cinghiale, ma di scroto di cinghiale, lungo e elastico. A dispetto della collocazione il pelo era profumato perché il cinghiale veniva nutrito, esclusivamente, con tartufo di Norcia. Ricordo che, talvolta, sorprendevo il Rino con le setole in bocca, aspettando il pasto. Recentemente gli ho chiesto se lo possedesse ancora. Mi ha rivelato che oggi, il pennellino, fa parte del suo corredo di utensili da cucina, utilizzato per aromatizzare i piatti più ricercati.
Ovviamente in qualità di amici/avversari, i due erano piuttosto severi nel giudicare i rispettivi lavori (ricordo una polemica sulla rosa rossa della maglia della nazionale inglese). A mio avviso il Rino era leggermente meglio, ma solo perché i peli di palle di cinghiale sono migliori dei peli di palle di elefante namibiano.
Entrambi erano documentatissimi e il loro vangelo era il “Guerin Sportivo”. Il Rino era un grande esperto di calcio estero. Una volta gli chiesi a bruciapelo: “Dimmi il nome di una squadra cilena!”. La risposta fu immediata: “Colo Colo” Proprio così: colo colo. Parliamo, in tutta evidenza di una cultura en-ci-clo-pe-di-ca.
Curiosamente, però, il suo campionato preferito era quello svizzero. Tifava Grassoppher ma non disdegnava neanche il Servette. Zurigo e Ginevra, ricordo le sue ambascie, quando si affrontavano. Perché, mi chiedevo, si è appassionato a un campionato tanto marginale? Semplice, membro di una stirpe di numismatici, il Rino era stato educato a ritenere la Svizzera, paese in cui il denaro è oggetto di venerazione, la Prima fra tutte le Nazioni. Probabile che avesse esteso la sua stima a tutti gli aspetti della vita sociale elvetica. Nota di colore. Ricordo che il Rino, alle elementari, scrisse un tema dal titolo “In viaggio con papà”. Raccontava delle loro gite in Svizzera: “Partiamo con una valigia piena e torniamo con la valigia vuota” scrisse. Occorse una generosa donazione alle Suore Spagnole per evitare che il componimento finisse nelle mani della Guardia di Finanza. Tempi eroici quelli!
Questo era il Subbuteo.
Un gioco in cui l’immaginazione era più importante della realtà. Il che è l’essenza di tutti i giochi, a ben vedere.
Diciamo allora che, per quanta immaginazione avessi, non ne avevo abbastanza per il gioco del Subbuteo.